70° anniversario della tragedia di Superga
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
L’Avvocato Luciano Randazzo era molto amico di Guido Mussolini, venuto a mancare lo scorso mese di Dicembre. Insieme avevano progettato da tempo di fare emergere la verità sulla morte del Duce. Soprattutto svelare perché, in certi consessi, si decretò che non andava processato. Intervistiamo l’avvocato nel giorno in cui si diffonde la notizia della scomparsa del nipote di Benito Mussolini.
Come nacque l’idea del processo al Duce?
«Un giorno incontrai Guido Mussolini con l’amico architetto Filippo Giannini. In quell’occasione si pensò ad armare, ovviamente in modo teatrale, il processo al Duce. Un po’ ricalcando l’opera di Mino Caudana, grande scrittore dimenticato, autore de Il Figlio del Fabbro come de Il Prigioniero del Gran Sasso e di altre opere certamente agiografiche di Benito Mussolini. Che dire di Guido Mussolini, grande personalità, certamente dimenticato: uomo colto, gran signore. Guido era, per usare un’aggettivazione antica, un uomo d’altri tempi. Con lui spesso mi son trovato a discorrere per ore. Nell’ambiente lo consideravamo il vero erede della rivoluzione culturale di suo nonno Benito. Secondo me è stato offuscato dall’immeritata notorietà di alcuni suoi parenti sbarcati in politica negli anni ‘90. Ma corre obbligo sottolineare come Guido abbia avuto il coraggio, e per primo, di fare luce, in sede processuale ed attraverso una indagine penale, circa la morte del Duce. Un assassinio ancora avvolto da mistero. Certamente il primo mistero insoluto della Repubblica italiana, e perché s’avvantaggeranno dalla sua morte molti protagonisti della cosiddetta Prima Repubblica. Allora è giusto chiedersi, anche per dovere storico, chi siano stati i traditori e le grandi potenze imperialiste artefici di quell’omicidio. E se non siano le stesse che hanno passato la mano a chi oggi assomma potere politico ed economico. La nuova Italia repubblicana e democratica è certamente nata con la macchia di un mistero, la morte del Duce. Grazie a Guido per la prima volta, e non in mera trattazione letteraria, si è cercato di fare luce sulla morte del Duce e della signora Petacci: entrambi furono uccisi da persone rimaste sconosciute. La tradizione partigiana e resistenziale vuole il Colonnello Valerio quale esecutore ed ideatore dell’omicidio, tradizione oggi cancellata perché sbugiardata dalle tante prove, anche se come pseudo verità ha condizionato in modo menzognero intere generazioni di studenti.»
«Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete » Cosi recitavano i volantini di guerra francesi che “ingolosivano” i goumier, i soldati marocchini assoldati tramite il cosiddetto Cef (l’esercito coloniale francese) che aveva lo scopo di aiutare i comparti alleati durante la campagna d’Italia, negli ultimi atti della seconda guerra mondiale. Le parole sono state attribuite al generale Alphonse Juin, che dopo le prime operazioni promise le “cinquanta ore di libertà” ai soldati. Dopo il 14 maggio del 1944 i goumier del Corpo di spedizione francese in Italia, che evitarono le linee tedesche nella Valle dei Liri, in provincia di Frosinone, e permisero all’esercito britannico di superare la Linea Gustav (ovvero la fortificazione che divideva l’Italia tra RSI e zona di occupazione alleata), razziarono senza troppi complimenti le aree circostanti, del basso Lazio, attuando violenze sulla popolazione – in particolare sulle donne – che oggi tutti ricordiamo e definiamo amaramente marocchinate. Nell’anno in cui perdurarono le violenze, si spinsero fino alla bassa Toscana. In realtà, gli stupri delle truppe marocchine erano cominciati già nel luglio ’43, dopo lo sbarco alleato in Sicilia. In quell’occasione oltre 800 magrebini compirono saccheggi di ogni genere, violentando donne e bambini nella zona di Troina, in provincia di Enna. Secondo lo storico Michelangelo Ingrassia, i siciliani reagirono uccidendone alcuni con doppiette e forconi. Ma quello che accadde in ciociaria e nei territori circostanti produce dei numeri ancora più drammatici. Nel 2011 Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, dichiara: “Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunció che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono 20.000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, possiamo quindi affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Continua a leggere
di Alessandro Sallusti
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
I primi nuclei di quello che poi diventò l’Esercito Repubblicano, non si costituirono dopo la proclamazione della Repubblica Sociale tanto meno per imposizione dei tedeschi, ma sorsero spontaneamente nelle ore immediatamente successive alla diffusione della notizia che l’armistizio era stato firmato.
Quanti furono i soldati che in quei momenti di assurda cecità dei comandanti, decisero liberamente, in completa autonomia di rifiutare la capitolazione senza combattere e di assumere la coraggiosa e tragica decisione di non accettare il cambiamento di fronte?
Si ribellarono di certo tutti i battaglioni della Milizia, tranne uno. Rifiutarono il disonore i marinai della Decima Flottiglia Mas, i paracadutisti della Nembo di stanza in Sardegna e nell’Italia Meridionale, i sommergibilisti di base a Bordeaux, di cui parleremo in seguito e numerosi altri reparti, anche dell’esercito dislocati dentro e fuori dai confini italiani. Non furono però soltanto interi reparti guidati da ufficiali a fare questa difficile scelta, ma spesso singoli giovani che, in completa autonomia, a migliaia, si presentarono alla spicciolata ai comandi germanici chiedendo di essere accolti come volontari per non passare armi e bagagli con il nemico.
Quando Mussolini proclamò la Repubblica Sociale Italiana, trovò già pronti alla più totale obbedienza almeno 180.000 uomini (186.000 secondo Battistelli e Molinari nel saggio “le Forze armate della RSI) che furono la base per il nuovo esercito prima ancora che il Maresciallo Graziani, nominato Ministro della Difesa, desse vita alla riorganizzazione delle Forze Armate con i soldati addestrati in Germania (12000 fra ufficiali, sottufficiali e soldati scelti fra le decine di migliaia che avevano chiesto di aderire alla RSI)e con la chiamata alle armi delle classi 1924 e 1925.
Una piccola parentesi, contrariamente a quanto si ripete per sottolineare l’imposizione che venne fatta ai giovani di presentarsi alle armi, va detto che la risposta fu invece entusiasmante contro ogni aspettativa. I dati ufficiali non sono mai stati resi noti nel dopoguerra, per ovvi motivi, Pisanò racconta da ricerche approfondite fatte che la renitenza non superò il 5 per cento.
Ecco la testimonianza tratta dal libro del generale, noto studioso di questioni militari, Emilio Canevari “Graziani mi ha detto”: L’affluenza delle reclute era enorme, senza precedenti non vi erano quasi renitenti di leva, mentre non esistendo quasi più i carabinieri, non si poteva di certo dire che l’affluenza ai distretti fosse stata determinata dalla paura di sanzioni.(…)al primo posto fu l’Emilia col 98 (dico novantotto) per cento dei presentati. Non è forse questo l’indice migliore del favore col quale era stata accolta dal popolo la costituzione del nuovo governo?”
Entro la fine del 1944 se ne erano presentati per l’arruolamento altri 350.000.
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fonte – https://www.ereticamente.net/2015/03/gli-uomini-che-scelsero-lonore.html
di Emilio Giuliana
Vi è un’insistente volontà che tende a sollevare il sinedrio di Caifa dalla colpevolezza di condanna a morte nei confronti di Gesù, indicando Pilato come responsabile e colpevole. FALSO! La storia e i vangeli sono chiari ed altrettanti chiari sono le fiere ammissioni giudaiche della loro volontà ne portare alla crocifissione CRISTO.
Sotto riporto uno scritto dell’acutisimmo e dottissimo storico Rutilio Sermonti, il quale fuga ogni dubbio dall’ennesimo ignobile tentativo di riscrivire falsamente la storia, quella di Ponzio Pilato.
di Rutilio Sermonti
Le responsabilità al loro posto.
(aurhelio.it) – Da romano quale mi vanto di essere, desidero assumere la difesa di Ponzio Pilato, quell’ottimo uomo e onorato funzionario, che viene ingiustamente vituperato, come ormai da secoli accade per l’azione sottile dell’ebraismo rabbinico, che – facendo scempio delle risultanze evangeliche – cerca di liberarsi dell’accusa di deicidioscaricandola sui Romani, e su quello in particolare.
Cominciamo col porre in chiaro che, all’epoca del processo a Gesù, la Giudea non era provincia romana, bensì “federata”. Il rappresentante del proconsole di Cesarea (come era il procuratore Pilato) aveva quindi giurisdizione politico-militare soltanto sui delitti di infedeltà a quel “foedus”, mentre, per tutti gli altri, e a maggior ragione quelli di sacrilegio contro la legge mosaica, la Competenza esclusiva era dell’autorità locale ebraica, e cioè del Sinedrio. Infatti, quando le guardie del Sinedrio (non i soldati romani!) arrestarono Gesù, cercarono di farlo condannare da Pilato con l’accusa di sedizione contro Roma.
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L’ideale del politicamente corretto che spesso sfocia nell’odio, politico e non, per chi si allontana dal pensiero unico omologante ha inserito nel proprio mirino la gloria dell’impero romano.
La colpa originaria degli italiani resta l’esteromania che spesso sfocia in una vera e propria esterofollia. Sulla divulgazione scientifica e storica in particolare se si eccettua il grande lavoro di Alberto Angela (premiato dagli ottimi ascolti) i canali televisivi si affidano sempre più spesso a produzioni straniere dalle scarse attinenze storiche. Due gli esempi lampanti: la serie tv “Britannia” andata in onda su Rai 4 e il ciclo di documentari “Gli 8 giorni che fecero Roma” trasmesso da Focus.
Partendo dalla prima, conclusasi da poco sulle emittenti in chiaro della Rai, è facile riscontrare una banalità e confusione completa nell’impostazione della stessa. I 9 episodi che la compongono non chiariscono se si tratti di una serie storica, fantascientifica o solamente più romanzata. Quel che è certo è che la serie statunitense e britannica, co-prodotta dai colossi Amazon e Sky, descrive l’impero romano e le sue legioni sotto l’amministrazione di Claudio come intimorite dai druidi e dalle popolazioni che abitavano l’isola a nord dell’allora Gallia nonostante la superiorità militare.
Tralasciando la solita intromissione di attori di colore (un po’ troppi per essere tutti legionari romani con tanto di nomi latini) appare impossibile anche il benché minimo paragone con un’altra serie tv che dipinse al meglio un’epoca appena precedente a questa: Roma co-prodotta da Hbo, BBC e Rai Fiction e girata negli studi di Cinecittà tra il 2005 e il 2007.
Il ciclo di documentari è stato, invece, presentato come uno dei punti di forza del nuovo canale Mediaset gratuito dedicato alla divulgazione culturale il cui curatore dei contenuti è il noto Roberto Giacobbo, già conduttore di Voyager sulle reti Rai e ora di “Freedom- Oltre il confine” su Rete 4. Appena mandate in onda le prime puntate de “Gli 8 giorni che fecero Roma” hanno ricevuto così tante critiche di faziosità da costringere immediatamente alla sospensione del programma. Continua a leggere
di Massimo Fini
Fonte: Massimo Fini
Nella sua rubrica L’Amaca, pubblicata da Repubblica, Michele Serra trova estremamente disdicevole, e quasi delittuoso, che Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, abbia candidato alle Europee Caio Giulio Cesare Mussolini, bis-bis nipote del Duce. Il solo cognome lo manda in deliquio e anche sul nome arriccia il nasetto perché ricorda quella romanità cui il capo del fascismo si ispirava (se potesse, il Serra, metterebbe ai ceppi, riesumandolo, anche Cesare, quello vero di “alea iacta est!”). Più che steso tranquillamente su un’amaca Serra sembra seduto sui carboni ardenti e scrive: “Mussolini fu un dittatore, un razzista, un’icona del ridicolo e la rovina del suo popolo”. Che il fascismo sia stato una dittatura non è nemmeno il caso di ricordarlo, anche se meno spietata di quelle a lui contemporanee, ma portando pur sempre sulla coscienza il delitto Matteotti, l’assassinio, in Francia, dei fratelli Rosselli e lo spegnimento, intellettuale e fisico, in carcere di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito comunista italiano. Mussolini poi, a differenza di Francisco Franco, ebbe la gravissima responsabilità di entrare in guerra con un alleato con cui non ci saremmo dovuti alleare e di perderla con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Altrimenti sarebbe morto tranquillamente nel suo letto, come Franco, invece di essere giustamente fucilato e poi appeso per i piedi a Piazzale Loreto, insieme a Claretta Petacci, ai gerarchi, quelli responsabili, quelli meno responsabili e altri di nulla responsabili, in una delle pagine più vergognose della nostra Storia che fece orrore agli stessi vincitori americani che allora erano parecchio diversi da quello che sono oggi. Ma la potenza retorica dei discorsi di Mussolini, che affascinò decine di milioni di nostri progenitori, può apparire ridicola oggi che sono passati tre quarti di secolo dal suo apogeo, allora non lo era affatto (per vedere il ridicolo nella retorica di Michele Serra non dovremo aspettar tanto, ci basta leggerlo oggi). Né si può ridurre il Fascismo al ‘Male Assoluto’, come fa Michele Serra peraltro in degnissima compagnia.
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LA NOSTRA STORIA
«Io ho ragioni che non posso dire qui, perché, perché…toccano cose che forse ancora non si possono dire, ma molto precise». Questo lasciava intendere sull’assassinio di Giovanni Gentile il filosofo ed ex senatore del PCI Cesare Luporini durante una trasmissione radiofonica di Radio Tre nell’aprile del 1989, ma nel giro di quattro anni portò con sé il segreto nella tomba.
Alle soglie del settantacinquesimo anniversario dell’omicidio Gentile non sarebbe perciò innoportuno tornare sul possibile significato di questa frase sibillina, avvalendosi anche di alcuni risultati dell’indagine condotta da Luciano Mecacci nel suo libro “La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile” (Adelphi, 2014).
Com’è noto, la sentenza di morte del filosofo apparve per la prima volta nel febbraio del 1944 sul foglio socialista di Lugano «Libera Stampa», per poi essere riproposta sull’organo clandestino del PCI «La Nostra Lotta» in forma leggermente modificata: in entrambi i casi gli articoli portavano la firma del latinista Concetto Marchesi e nascevano come radicale rigetto delle proposte di conciliazione nazionale avanzate da Gentile nel corso del 1943. In realtà il secondo articolo, quello in cui compare il famigerato verdetto («senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sua sentenza: MORTE!») venne modificato da Girolamo Li Causi, responsabile della stampa clandestina del PCI, e avallato da Togliatti. L’esecuzione avvenne all’ingresso della villa di Montalto al Salviatino il 15 aprile 1944 da un commando di gappisti fiorentini composto da Bruno Fanciullacci e Giuseppe Martini, anche se restano ancora incertezze su chi fu dei due a sparare. Continua a leggere