Segnalazione Linkiesta
Decisiva fu l’astensione di Pci e socialisti, passerà alla storia come “il governo della non sfiducia”. I protagonisti dell’epoca ricordano che la situazione era molto simile a quella attuale. Cinque stelle e Lega ci sperano. Scotti: «Se non si vuole tornare al voto non ci sono molte alternative»
Anche allora le urne avevano premiato due vincitori. I democristiani di Benigno Zaccagnini avevano conquistato il 38,7 per cento, mentre il partito di Enrico Berlinguer si era fermato al 34,4 per cento. Situazione complessa, dato che nessuno dei due partiti aveva i numeri sufficienti per governare. Una impasse resa ancora più complicata dalla scelta dei socialisti, decisi a non entrare al governo senza la contemporanea presenza dei comunisti. Dopo una lunga mediazione – gestita al Quirinale dal presidente Giovanni Leone – si individuò la soluzione in un governo monocolore Dc. Un tentativo reso possibile dall’astensione di Pci, Psi, Psdi, e Pri. «L’alternativa era tornare immediatamente al voto» ricorda oggi Vincenzo Scotti, più volte ministro e sottosegretario al Bilancio di quell’esecutivo. «Ma nella storia repubblicana non era mai successo. E così, alla fine, si decise per quella strada». A Palazzo Madama il governo Andreotti III ottenne la fiducia con 136 sì, 17 contrari e 69 astensioni. A Montecitorio con 258 voti favorevoli, 44 contrari e 303 astenuti.
Senza fare paragoni impietosi, da allora molto è cambiato. A partire dai leader. Luigi Di Maio e Matteo Salvini non sono Andreotti. «Ma non sono nemmeno De Gasperi, Togliatti e Nenni» ride Vincenzo Scotti, che di quel governo era sottosegretario al Bilancio. «E lo dico con il massimo rispetto per tutti»
Il limite temporale è evidente. Il governo Andreotti III non ha avuto lunga vita, rimanendo in carica per meno di due anni. E limitato era anche il programma di quell’esecutivo: ogni provvedimento rilevante doveva essere preventivamente concordato con il Partito comunista. Ma le coincidenze con quell’esperienza non sono finite. Nel 1976 la grande mediazione fu anticipata da un importante passaggio istituzionale: l’elezione del presidente della Camera. La prima grande prova di intesa tra Dc e Pci si consumò attorno a Pietro Ingrao, scelto come successore di Sandro Pertini sulla poltrona più importante di Montecitorio. Oggi sono in molti a immaginare uno scenario simile. L’elezione di un esponente del Partito democratico al posto di Laura Boldrini potrebbe rappresentare un primo passo verso la nascita di un governo di minoranza. «Quello di Ingrao fu un segnale molto importante – insiste Scotti – Anche stavolta capiremo molto proprio dall’elezione dei presidenti di Camera e Senato».
Il calendario torna indietro di quarant’anni. I ricordi vanno alla Prima Repubblica, rievocano la Democrazia Cristiana e la figura di Giulio Andreotti. Se c’è un precedente a cui in queste ore molti guardano con interesse è proprio il “governo della non sfiducia”. Il monocolore Dc nato nell’estate del 1976 grazie all’astensione del partito comunista e dei socialisti
Intanto la disprezzata Prima Repubblica torna d’attualità. Alla faccia del presunto rinnovamento. «Ma quello era tutto un altro mondo – insiste Scotti – Allora i partiti avevano chiari gli obiettivi da perseguire». Zamberletti è d’accordo. «È un periodo che guardo con nostalgia, molto diverso da oggi. Ormai non esiste più dibattito all’interno delle forze politiche, manca il coinvolgimento della comunità nazionale e delle periferie. Le scelte erano prese dopo lunghi dibattiti, a volte aspri. Oggi le decisioni sono prese solo dai vertici».
Fonte: http://linkiestait.musvc1.net/e/t?q=5%3d7ZAY9%26J%3d3%26F%3d3cB%26G%3d1e5X4%26S%3djLtN_tsSx_53_ryUr_2D_tsSx_48wUy.DiLmAeQv3.iR_tsSx_48iR_tsSx_48aPvAcJg_JQ1R_TfZBS8_PSuP_Zhb3_PSuP_Zhb8_PSuP_ZhA-cGpIuC-uLeJn7-cMo7-l9-f5-dG-cFdPgGtRk-Al-Nt7cCf7nRg-6eJ-3a7d-e0e-Dc-_JQ1R_Tfa9U73a9ch_tsSx_48%26d%3dKwKvA3.FeR%26kK%3d1eBV0