Il “grande gioco” israeliano

di Giacomo Gabellini
Il “grande gioco” israeliano
Fonte: Giacomo Gabellini
All’inizio del 2012, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si recò alla riunione annuale della potentissima American Israel Public Affairs Committee (Aipac) per pronunciare un duro atto d’accusa contro la linea politica dell’amministrazione Obama, interrotto dalla lettura di una alcuni passaggi di una lettera, risalente al 1944, attraverso la quale il Dipartimento della Guerra statunitense aveva comunicato ai rappresentanti del movimento sionista il rifiuto alla loro proposta di bombardare un segmento del tratto ferroviario che conduceva al campo di concentramento di Auschwitz. Alla fine del suo intervento, il leaderdel Likud affermò inoltre che «nessuno di noi può permettersi di aspettare ancora a lungo. In qualità di premier israeliano, non permetterò che il mio popolo viva all’ombra dell’annientamento», strumentalizzando così la sofferenza degli ebrei a fini ideologici conformemente all’ormai consolidata pratica di giustificare la politica israeliana. Lo stesso premier israeliano si prestò a una sceneggiata dello stesso genere in occasione anche dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2012, presentandosi dinnanzi ai delegati di tutto il mondo con in mano un manifesto raffigurante una bomba a palla con una miccia accesa, su cui tracciò una linea rossa corrispondente, a suo dire, al “punto di non ritorno”, vale a dire il limite che le Nazioni Unite dovrebbero impedire all’Iran di superare «prima che completi l’arricchimento necessario a fabbricare una bomba». 
Uno spettacolo sostanzialmente non difforme si è ripetuto in questi giorni, con lo stesso Netanyahu che, attraverso un “messaggio alla nazione”, ha dichiarato che il Mossad e l’Aman erano entrati in possesso di circa 100.000 documenti comprovanti la “cattiva condotta” di Teheran. Nello specifico, l’Iran è stato accusato di violare l’accordo dei “5+1” raggiunto nel 2015 che sanciva l’interruzione del programma nucleare in cambio di una graduale rimozione delle sanzioni occidentali condizionata al rispetto delle clausole dell’intesa su cui avrebbero dovuto vigilare gli ispettori dell’International Atomic Energy Agency (Aiea). Netanyahu ha sostenuto che l’Iran intenderebbe dotarsi di «almeno 5 ordigni di potenza analoga a quello sganciato su Hiroshima» indirizzabili verso Israele attraverso i missili Shabab-3, Ghadr-1H e Ghadr 1-F, specialmente ora che Teheran dispone di strutture militari in Siria a seguito della discesa in campo a fianco dell’alleato Bashar al-Assad. Il primo ministro ha inoltre chiarito che Tel Aviv si è premurata di sottoporre tutto il materiale raccolto all’attenzione degli specialisti statunitensi, i quali ne avrebbero garantito l’autenticità.
L’unico problema è che, alle ovvie smentite de l’Aiea ha ribadito ufficialmente allo show di Netanyahu dichiarando ufficialmente che «non ci sono indicazioni credibili riguardo allo sviluppo di capacità nucleari da parte dell’Iran dal 2009 in poi», e che il Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot aveva affermato poche settimane prima che l’accordo del 2015 «sta funzionando correttamente». È del resto nota la forte inclinazione di Netanyahu alla “drammatizzazione” strumentale di questioni reali in funzione dell’ottenimento di vantaggi di natura politica e/o personale, sia per lui che per la sua famiglia. Al momento, è impossibile esprimere un giudizio sereno ed obiettivo sulla veridicità delle pesantissime accuse mosse da Netanyahu, ed occorre pertanto ricorrere all’analisi dei comportamenti tenuti in precedenza dai protagonisti della vicenda riguardo alla questione del nucleare iraniano per formulare ipotesi di sorta. È da più di dieci anni che i leader politici israeliani, a partire da Ehud Barak e dallo stesso Netanyahu, sostengono che l’Iran sia vicino a dotarsi dell’arma atomica ma gli analisti della Cia e del Mossad hanno sempre affermato il contrario.
Il che non ha tuttavia impedito a Israele di passare comunque all’azione per sabotare il programma nucleare iraniano. Conformemente a questo scopo, l’Unit 8200 e la National Security Agency lavorarono fianco a fianco per attaccare con i sofisticati virus informatici Stuxnet e Stars gli impianti nucleari iraniani, provocando gravi danni e ritardi, mentre le autorità israeliane accantonavano l’opzione dell’attacco diretto contro le centrali iraniane decisero per ripiegare su “metodi” meno rischiosi ma non per questo meno efficaci. Sotto la direzione di Meir Dagan, il Mossad ideò e mise puntualmente in atto il Decapitation Programme, un’operazione coperta mirante al sabotaggio del programma nucleare iraniano che, attraverso fughe di gas tossici, esplosioni scatenate da materiali difettosi ed agguati di vario genere, ha provocato la morte dei fisici ed ingegneri nucleari iraniani Ali Mahmoudi Mimand, Daryoush Rezaie, Majid Shahriari, Hassan Moghaddam, Abbassi Davani e Mustafa Ahmadi-Roshan. Secondo alcune ricostruzioni piuttosto accreditate, c’era la mano del Mossad anche dietro l’esplosione presso la base dell’aeronautica Imam Ali che provocò la morte di 18 tra tecnici e miliari, tra cui il generale Hassan Therani Moghaddam, personalità di spicco del programma missilistico iraniano. Teheran ha inoltre esternato il sospetto che dietro al dirottamento dell’aereo decollato da Bishkek e diretto a Teheran, schiantatosi al suolo nell’agosto del 2008 causando la morte di 44 scienziati iraniani, ci fosse la mano del Mossad.
Quella di eliminare i quadri, gli intellettuali e i tecnici degli Stati ostili onde indebolirli e rallentarne o comprometterne lo sviluppo è un modus operandi di cui è stato fatto largo impiego nei confronti della Siria e dell’Iraq per impedire loro di compiere sostanziali progressi tecnologici che li pongano nelle condizioni di alterare l’equilibrio della regione. Già durante la Guerra del Golfo, gli Usa lanciarono una campagna di eliminazione sistematica dei tecnici iracheni inquadrati nella Guardia Repubblicana, e a conflitto terminato pretesero che nell’elenco delle merci soggette ad embargo verso l’Iraq venissero inserite le riviste scientifiche e le attrezzature da laboratorio necessarie alla ricerca. L’assassinio delle personalità tecnologicamente più all’avanguardia di Siria ed Iran rispondeva ovviamente al medesimo scopo.
Non va inoltre dimenticato che, nel giugno del 1981, Tel Aviv non esitò ad avvalersi dei dati forniti dal sistema satellitare Usa per guidare – contro il parere del Mossad e dell’Aman – i propri F-16 verso l’obiettivo designato, corrispondente al reattore Tammuz-1 della centrale nucleare al-Tuweitha costruita dai francesi negli anni ’70 presso Osiraq, in territorio iracheno. L’Operazione Babilonia, lanciata nonostante l’Iraq avesse sottoscritto – a differenza di Israele – il Trattato di Non Proliferazione nel 1968 e sottoponesse i propri impianti alle ispezioni dei tecnici dell’Aiea, era rivolta proprio ad impedire a qualsiasi costo che l’Iraq di Saddam Hussein si ponesse nelle condizioni di dotarsi di armi atomiche (informazioni cruciali circa il programma nucleare iracheno erano state raccolte nell’ambito dell’Operazione Sphinx).
Per Israele, la prospettiva stessa che un Paese limitrofo possa dotarsi di armi nucleari rappresenta un rovescio enorme, poiché lo depriva del monopolio nucleare che la leadership dello Stato ebraico ha sempre difeso a spada tratta. Attualmente, Tel Aviv si arroga il diritto di lanciare accuse e minacce verso un Paese firmatario del Trattato di Non Proliferazione nucleare come l’Iran in veste di rappresentante dell’unica nazione del Medio Oriente a disporre di un arsenale nucleare che – a differenza dell’Iran – non accetta le ispezioni dell’Aiea. Il primo a stracciare il velo dell’ipocrisia calato su questa vicenda dai vertici israeliani fu il tecnico nucleare Mordechai Vanunu, che nel 1986 scappò dalla centrale di Dimona in cui lavorava per rivelare che Israele era in possesso di un arsenale nucleare segreto, nonostante le autorità di Tel Aviv avessero ripetutamente smentito le voci che circolavano a questo riguardo. Il gesto di audacia costò a Vanunu il sequestro a Roma da parte di alcuni agenti del Mossad, che il 30 agosto 1986 lo rapirono e lo trasferirono in un carcere israeliano. Nel corso di un’intervista rilasciata nell’ottobre del 2005 a una giornalista svizzera, Vanunu ha rammentato che:

«da nove anni lavoravo al centro di ricerche in armamenti di Dimona, nella regione di Beer Sheva. Poco prima di lasciare quel lavoro, nel 1986, avevo scattato delle fotografie all’interno dell’impianto per mostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare. Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per fabbricare bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materia fissile venivano prodotte, quali materiali erano utilizzati e quali tipi di bombe venivano fabbricate».

Alla domanda relativa al movente di questa azione, Vanunu rispose:

«se decisi di farlo, fu perché le autorità israeliane mentivano. Si profondevano, ripetendo che i responsabili politici israeliani non avevano nessuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. In realtà, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire a un solo fine: fabbricare bombe nucleari. Si trattava di quantità importanti: ho calcolato che all’epoca – nel 1986! – avevano già 200 bombe atomiche. Avevano anche cominciato a produrre bombe all’idrogeno, molto potenti».

Vanunu non è stato comunque l’unico ad accendere i riflettori sull’arsenale atomico israeliano. Nel marzo 2015, l’ex segretario di Stato Colin Powell scrisse in una e-mail scovata e pubblicata da DcLeaks che Israele teneva «200 bombe atomiche pronte al lancio su Teheran». L’autorevole rivista militare britannica «Jane’s», dal canto suo, stima invece in circa 400 testate l’arsenale nucleare israeliano, il cui punto di forza è rappresentato dai missili balistici a lungo raggio Jericho-3, capaci di raggiungere obiettivi a 9.000 km di distanza, e soprattutto dai Jericho-2, missili a medio raggio dotati di motore a propellente solido, lunghi 14 m, pesanti oltre 26.000 kg, capaci di coprire quasi 3.000 km di gittata e installabili su veicoli in movimento oltre che su silos. È tuttavia il missile Shavit – sviluppato sulla base tecnica del Jericho-2 – a costituire l’asso nella manica di Israele, che pur essendo stato utilizzato da Tel Aviv per lanciare in orbita i satelliti Ofeq potrebbe essere impiegato per trasportare testate nucleari a una gittata vicina ai 10.000 km, il che ne fa – al pari del Jericho-3 – un vettore strategico capace di estendere la capacità offensiva di Israele a vaste zone dell’Africa e all’intera area territoriale del Medio Oriente. Il Popeye rappresenta invece una fase preliminare di missile aria-terra (installato sui caccia F-151 Ra’am e F-161 Sufa, in dotazione all’aeronautica israeliana) da cui è stato sviluppato il Popeye Turbo, missile da crociera a testata nucleare lungo 4,8 m, pesante 1.360 kg, dotato di sistema di guida a infrarossi e capace di coprire una gittata compresa tra i 200 e i 350 km. Numerose fonti riferiscono che tale missile sia stato successivamente adattato ai lanciasiluri da 650 mm di cui sono dotati i sottomarini Dolphin (fabbricati in Germania), lunghi quasi 58 m con 1.900 tonnellate di dislocamento in immersione. Forte di un simile arsenale e rassicurato dalle potenti alleanze internazionali, Israele può permettersi di non aderire alla Conferenza Onu per la creazione di una zona mediorientale libera da armi nucleari, cui partecipa invece l’Iran. Può continuare a fabbricare svariate bombe atomiche all’anno, grazie alla quantità di plutonio complessivamente prodotta che si aggira attorno ai 950 kg. È nelle condizioni di produrre anche trizio, isotopo radioattivo dell’idrogeno utile per fabbricare armi nucleari di nuova generazione come le mini-nukes, da utilizzare negli scenari bellici più ristretti – come Gaza.
La decisione israeliana di allestire un arsenale nucleare tanto potente è di fatto andata a scompaginare radicalmente il fragile equilibrio delle forze nella regione spingendo gli altri Paesi mediorientali a tentare un “ribilanciamento strategico”. Per lo Stato ebraico, la protezione garantita dagli Stati Uniti rappresentava una forma di tutela sensazionale e la migliore opzione sul tavolo sarebbe pertanto stata quella di mettere a punto un programma nucleare civile che ponesse il Paese nelle condizioni di sfruttare le conoscenze acquisite a fini militari in caso di necessità. È probabile che l’Iran punti proprio a questo obiettivo, visto e considerato che per Teheran la deterrenza assicurata dall’avanzatissimo arsenale nucleare a disposizione dell’alleato russo rappresenta la migliore delle garanzie disponibili.
Alla vigilia delle elezioni politiche del marzo 2018, Putin ha infatti annunciato la produzione in serie di missili intercontinentali in grado di sfuggire a qualsiasi sistema intercettore attualmente in uso e chiarendo che Mosca non esiterà a farvi ricorso come forma di rappresaglia atomica «nell’eventualità di un attacco nucleare contro la Russia o i suoi alleati» – leggi Cina e Iran. Nello specifico, si tratta di

«un missile da crociera lanciato dall’aria armato di testata nucleare, con raggio d’azione praticamente illimitato essendo alimentato a energia nucleare, una rotta imprevedibile e la capacità di penetrare attraverso qualsiasi difesa anti-missile. I missili Kinzhal e Avangard con velocità ipersonica (oltre 10 volte quella del suono). Il missile balistico intercontinentale Sarmat da 200 tonnellate su piattaforma mobile, con un raggio di 18.000 km, armato di oltre 10 testate nucleari che manovrano a velocità ipersonica per sfuggire ai missili intercettori. Un drone sottomarino più veloce di un siluro che, alimentato a energia nucleare, percorre distanze intercontinentali a grande profondità colpendo porti e fortificazioni costiere con una testata nucleare di grande potenza».

In tale contesto, il “messaggio alla nazione” di “Bibi” tende a configurarsi come un’occasione d’oro fornita sul piatto d’argento a Trump – che non a caso ha dichiarato che il “lavoro sporco” compiuto dai servizi israeliani «dimostra che avevo ragione al 100%» – per portare avanti i suoi piani miranti alla revoca dell’accordo dei “5+1”, che gli Usa sono i primi a violare punendo duramente le banche che erogano crediti a Teheran, e alla destabilizzazione del regime politico iraniano. Netanyahu rese noto al pubblico di aver messo nel mirino Teheran già nel gennaio 2002, quando scrisse un articolo per il «Chicago Sun Times» in cui avvertiva che

«le forze americane hanno abbattuto i Talebani in Afghanistan, sgominando la rete di protezione di cui godeva al-Qaeda in quel Paese. Ora, gli Stati Uniti sono chiamati a portare avanti la missione contro gli altri sponsor del terrore, vale a dire l’Iran, l’Iraq, la dittatura di Yasser Arafat e la Siria».

È interessante notare come le “indicazioni” di Netanyahu ricalcassero quelle già espresse dal laburista Ehud Barak in un articolo per il «Times», segnando una perfetta convergenza di vedute ed obiettivi strategici tra due poli opposti del panorama politico israeliano, diversi alti esponenti de Congresso statunitense e buona parte del governo di Washington. L’attacco all’Iraq del 2003, basato su una colossale e spudorata menzogna, fu frutto anche delle pesantissime pressioni sugli Usa esercitate dallo Stato ebraico e da un’inaudita campagna a favore dell’intervento militare orchestrata dalla Israel Lobby statunitense, e segnalava che i neoconservatori – alcuni dei quali avevano scritto per Israele il noto memorandum Clean Break, che ha fortemente condizionato la politica di Tel Aviv – presenti in gran numero nell’amministrazione Bush stavano «camminando lungo la linea sottile che separa la lealtà al governo degli Stati Uniti dagli interessi israeliani», come osservò un autorevole esperto israeliano come Akiva Eldar. Gli stessi strateghi che intendevano rimodellare la mappa geopolitica del Medio Oriente secondo modalità confacenti agli interessi Usa grazie a un ambiziosissimo piano operativo che, stando alle rivelazioni dell’ex generale Wesley Clark, prevedevano di

«far fuori sette Paesi in cinque anni, ovvero Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e per finire Iran».

Già allora, l’Iran si accreditava quindi come l’obiettivo finale della grande strategia statunitense, ed è attualmente il vero obiettivo delle guerre per procura ingaggiate contro la Siria e i ribelli Houthi (sciiti-zayditi) operanti in Yemen dal fronte Nato-saudita-israeliano. Non va inoltre dimenticato che la Repubblica Islamica è stata recentemente teatro di una rivolta contro il carovita e l’accentramento della ricchezza nelle mani del clero. La sollevazione, accompagnata da una guerra valutaria condotta da Usa, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti mirata a deprimere il corso del rial con l’obiettivo di privare il regime dell’appoggio popolare, è scoppiata a pochi mesi di distanza dalla decisione di Washington di assegnare la gestione delle operazioni di intelligence contro la Repubblica Islamica al titolatissimo “principe nero” Michael D’Andrea, veterano della Cia dal 1979. Le manovre contro la Repubblica Islamica seguono in maniera piuttosto fedele le indicazioni contenute in uno studio focalizzato sulle modalità di cambio di regime in Iran condotto nel 2009 dalla Brookings Institution, e rispondono all’obiettivo di mettere in riga un Paese che, nonostante le fortissime pressioni cui è sottoposto incessantemente fin dalla caduta dello Shah nel 1979, non si è mai piegato ai diktat occidentali e continua a difendere con impressionante ostinazione la propria indipendenza e ad esercitare un’influenza religiosa, linguistica e culturale che si irradia fino all’Asia centrale. Uno Stato che, assieme a Russia e Cina, costituisce un pilastro fondamentale del nucleo anti-egemonico da cui proviene la sfida di maggiore portata all’assetto unipolare dominato dagli Stati Uniti.
Dal punto di vista di Tel Aviv, l’obiettivo strategico è quello di mantenere inalterato il divario tecnologico e “di potenza” che separa Israele dal resto dei Paesi della regione anche a costo di spezzettare il Medio Oriente in una serie di micro-entità statali prive della forza di sfidare Tel Aviv (il famoso Piano Yinon) e di istituire un’alleanza de facto con l’Arabia Saudita. Trattasi di una delle nazioni più oscurantiste al mondo che funge da stampella per il fondamentale sistema dei petro-dollari ed ha in comune con lo Stato ebraico l’astio irriducibile nei confronti dell’Iran, la cui ascesa favorita da una vigorosa politica di potenza (soprattutto in Siria e Yemen) tende a ridimensionare l’influenza di Riad sul mondo islamico e sugli equilibri geopolitici globali.
 

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