Forza e limiti di Machiavelli
Si comprende dunque la grandezza di Machiavelli e perché Croce consideri Machiavelli e Vico gli autentici filosofi moderni, pratici. La “filosofia della prassi” nascerebbe nel contesto della spiritualità rinascimentale italiana, come il Burckhardt ben intuì. Il pensiero moderno e universale ha radice così nella Firenze di quei tempi, in Italia non in Inghilterra non in Germania. Ma questo concretamente che significato ha? Metodo scientifico basato sulla mera osservazione della dura necessità della lex naturae (dunque Machiavelli) o creativa intuizione pura fondata sulla azione libera della guida spirituale-politica, o dell’elite religiosa ispirata dal divino (Savonarola)? Comunque si studia la storia moderna e contemporanea tutto ci riporta, continuamente, alla cultura italiana, ultima fortezza in un occidente obnubilato da un trasvalutante nichilismo tecnoscientista, antiumanistico.
Etica e politica significa d’altra parte, oggi, metafisica o scienza, regno umano o finanza tecno scientifica? E il saggio di Burnham sui machiavelliani ed i difensori della libertà andrebbe oggi ripreso in quanto conteneva intuizioni che i fatti poi confermeranno. In sostanza: autentico machiavelliano colui al quale arride il successo? Dunque prototipo dello statista e dell’uomo immanentista colui o coloro i quali vinsero la guerra sganciando le atomiche? E’ veramente questo il metro di giudizio della “grande politica” e della arte di stato? E Machiavelli sarebbe concorde con tali valutazioni così crudamente empiriche? Proverò ora a sciogliere questi enigmi, pur sapendo che sono di difficilissima risoluzione, mai definitiva del resto.
La contraddizione eraclitea, anche violenta e drammatica purtroppo, come la storia ci ha tristemente insegnato, è il cuore di ogni realtà e in fondo di ogni autentica “ascensione”. Machiavelli è il teorico per eccellenza del conflitto politico. Ben diverso, in tal senso, da Hobbes come da Rousseau. Il regno della definitiva Armonia e della pace collettiva non è per lui possibile. Probabilmente, oggi, accuserebbe di astratto e pericoloso utopismo l’ideologia imperiale cinese di Xi Jinping. Sarebbe concorde allora, vivesse oggi, con i neocon americani e con la dottrina Rumsfeld come disse Leeden, autore di un importante saggio su Machiavelli nel XXI secolo? Difficile dirlo, ogni sforzo di attualizzazione neo-machiavelliana risente della duplice lettura dell’autore, ossia quella de “I Discorsi” e quella de “Il principe”. Vedremo, comunque, che Machiavelli può essere attualizzato soprattutto alla luce dei poli ideologici risorgimentali.
Il segretario fiorentino non risolve però il dilemma etica politica, come anche il “machiavelliano” Croce riconosce. I concetti di Virtù e Fortuna non si realizzano in una superiore sintesi immanentistica e umanistica, per quanto dinamica non qiuetistica, ma finiscono per riesplodere in tutta la loro molecolare contraddizione atomistica. Si sbaglia, comunque, a rappresentare come mero cinismo la “filosofia della prassi” del segretario fiorentino. Vuole anzi essere una apologia della buona etica. Aver il coraggio di fare pure il male, di calarsi nel regno demoniaco del potere tellurico pur di attuare il trionfo del bene. Si guardi primariamente al fine — il bene della patria, la ragione di Stato — e i mezzi saranno perciò stesso onorevoli.
Per Machiavelli contano le “forze naturali” della storia, non “le cagioni superiori” immanenti nella storia, poiché non vi sono. Questa la nuda logica del Machiavelli: in essa la sua grandezza, la sua eterna originalità ma anche il suo limite. Uno Stato non si regge sulle “cagioni superiori” e nemmeno sulla pura Virtù tecnica del principe. Machiavelli rimane perciò nel mezzo tra la trascendenza medioevale e la nuova trascendenza del naturalismo. Egli fa così rinascere una nuova forma di trascendenza, quella della natura che non si può spiritualizzare od umanizzare, della natura che rimane al di qua dell’uomo stesso. Natura diviene a tal punto lo stesso mondo umano; natura la stessa Fortuna machiavelliana, la quale opera spesso a suo arbitrio. Il Centauro machiavellico, per metà uomo per metà bestia, è appunto il simbolo del naturalismo trascendente che caratterizza la visione del mondo del cancelliere di Firenze.
Quindi Croce e Gramsci han torto quando vedono nel Machiavelli l’anticipatore della consapevolezza storicistica, immanente, dei nuovi tempi? No. In Machiavelli, come del resto vide Hegel, c’è un balzo qualitativo, un balzo in avanti nello “spirito del tempo”. In tal senso, Machiavelli, come dice giustamente Gramsci, è il primo Giacobino della storia, è il teorico per eccellenza dello Stato borghese e democratico rivoluzionario. L’autonomia della politica di cui fu eccelso pensatore è il dominio, l’unico, che l’élite strategica o “il principe” può strappare al regno del caso e dell’ignoto. Qui si affaccia il germe di umanismo italiano nel segretario fiorentino.
Savonarola il rivoluzionario
Non si può però parlare del Machiavelli senza parlare del Savonarola. Chi lo fa, ed oggi molti professori lo fanno veramente a cuor leggero, va a mio modesto parere fuori strada. Tale umanismo machiavelliano, che è quasi un punto di rottura nel suo generale sistema formale-reale, non potrebbe scaturire proprio dall’impulso rivoluzionario savonaroliano? Entrambi, sia il segretario fiorentino sia il frate ferrarese, insistono su due momenti eterni dello spirito umano. Se Machiavelli è il naturalismo trascendente, Savonarola è forse, proprio, l’immanentismo spiritualistico? Carlo Curcio, professore di filosofia della politica nell’Università di Perugia tra gli anni ’30 e ’40 dello scorso secolo, rilevava come il momento centrale della temperie politica e sociale dell’epoca fosse rappresentato dall’irruzione sulla scena del Savonarola, ben più che da “Il principe”, il quale, a gran dispetto dell’ultrarealismo conclamato, avrà nell’immediata storia patria nulli effetti pratici. Occorrerà infatti attendere il conte di Cavour perché in Italia vi sia “Il principe” di scuola machiavellica. Il savonarolismo, il misticismo politico fratesco, nell’ermeneutica del Curcio, non è una realizzazione della teologia tomistico-aristotelica, non è medievalismo. E’ invece una differente declinazione sperimentale di realismo immanentistico e attivistico che appartiene alla tradizione politica italiana . Cosa avrebbe dovuto, concretamente, fare di più il povero frate domenicano per risvegliare le coscienze, obnubilate dall’eccesso unilaterale di stordimento empiristico-materialistico, dal “vizio e dal peccato”? Il frate del Curcio diviene perciò un idealista antiborghese ed un “populista” che mira all’instaurazione di una concreta dittatura rivoluzionaria antiplutocratica e antioligarchica, una dittatura rivoluzionaria purificatrice, che sappia affermare la libertà repubblicana, lo Stato popolare ierocratico, lottando sino alla morte per impedire la fatale nascita dello Stato guardiano notturno degli interessi materialistici della borghesia. Dice il Curcio durante una sua lezione universitaria nel 1939:
«Savonarola è un rivoluzionario politico e un conservatore nei valori eterni. A parte quel suo atteggiamento ribelle di fronte alla Chiesa, di fronte agli uomini del suo tempo, Egli è un iniziatore dei nuovi tempi, ben più del Machiavelli e degli scienziati del Rinascimento. In Savonarola troviamo accenni così attuali e rivoluzionari che allora non si compresero. La volontà di distruggere il passato, di “rinnovare ogni cosa alla luce dell’ideale”, il suo concepire la vita come “una milizia sacra e continua sopra la terra”, la sua speranza nei giovani cui i tempi nuovi sono commessi: e soprattutto la coscienza di un fatale istaurarsi di un ordine nuovo, morale, in seguito alla spaventosa ecatombe provocata dai vizi e dai peccati suoi contemporanei, in seguito a avvenimenti straordinari che dovranno segnare l’avvento dell’era nuova. Lo spirito del Savonarola incarnava il momento antiborghese, era la reazione spiritualistica e idealistica a una rivoluzione già avvenuta, che aveva partorito lo stato borghese, realistico, terreno. Accanto allo spirito “utopistico”, immanente, della rivoluzione del Savonarola, l’Italia prepara il terreno alla concezione machiavellica della politica come ostetrica dello stato e del diritto».
In Savonarola prende vita e corpo, per la prima volta nella storia, l’impulso del Cristo quale motore sociale e anche politico, oltre la classica distinzione dualistica tra città celeste e regno terreno. La visione del Curcio ha trovato conferma, oggi, in quello che è filosoficamente il più ponderoso scritto sul savonarolismo politico millenaristico, ovvero quello di Donald Weinstein. Si dirà ora: “Savonarola sconfitto”, “profeta disarmato”.
Secondo la lettura di Luigi Russo, grande interprete del pensiero machiavelliano, il seme del martirio dei frateschi viceversa fruttificò. Fruttificò con Vico e i vichiani, i quali accanto alla “realtà effettuale” fecero valere la “realtà ideale”; fruttificò, soprattutto, con il processo stesso della storia italiana, quando l’unità della penisola, profezia astratta sul limitare del ‘500, finì per tramutare il pathos profetico savonaroliano nel verbo e nelle azioni del Mazzini.
Sorel e il mito
Diviene così centrale, nella filosofia politica contemporanea, come ben videro sia Gramsci sia C. Schmitt, la categoria spirituale del “mito politico”. Entrambi, il sardo e il giurista tedesco, identificano nella dottrina del “mito politico” del Sorel la metamorfosi del machiavellismo nel XX secolo. E’ una lettura però unilaterale. Entrambi rileggono l’ideologia soreliana attraverso il tatticismo politico strategico del Mussolini. E’ dunque una lettura forzata e astratta. Mussolini, che in più casi, come noto, si dichiarò discepolo del Sorel, lo fece perché non poteva, per evidenti motivi, dirsi discepolo del Croce. Il sorelismo arrivò in Italia tramite Benedetto Croce e tutto il periodo “socialista nazionale” (si trattava naturalmente di un socialismo non illuministico, non giacobino, non russoviano) del filosofo italiano, che arriva più o meno sino all’avvento del fascismo e di Mussolini, fu all’insegna di una teorizzazione filosofica della sociologia politica soreliana.
Scavando dunque, sarebbe pur interessante vedere quanta filosofia politica crociana vi sia nell’antidemocraticismo, nell’antindividualismo, nell’organicismo, nella lotta di vita o morte alla “mentalità massonica” e al modello di civilizzazione anglosassone, attuati dal capo del fascismo. Certo, l’israeliano marxista Sternhell, autore dei più notevoli saggi sull’ideologia fascista (Cfr. “La nascita dell’ideologia fascista”, “La destra rivoluzionaria”, “Contro l’illuminismo”), ha probabilmente ragione quando individua nell’ideologia soreliana una delle fonti centrali di tale sommovimento storico. Ma il Sorel politico fu uno “spontaneista”, avverso, come tutta la tradizione marxista del resto (Gramsci a parte), a quell’autonomia del politico, che fu il grande punto di forza del tatticismo strategico mussoliniano. Il culto della tecnica e della produzione, con l’orizzonte ultimo dell’estinzione dello stato e della politica, continua a vivere come impulso strategico nel Sorel spiritualista e moralista, che si considera prosecutore di Pascal, ammiratore di Corbeille, Racine, Moliere e nel Sorel neostoricista, collaboratore di Benedetto Croce e ammiratore di Vico e Mazzini. Inoltre, se il bagaglio ideologico dell’elite del sindacalismo rivoluzionario fluì poi nel fascismo, occorrerebbe vedere come e quanto, nella fazione sindacalista italiana, il sorelismo si integri col mazzinianesimo. Quanto Sorel c’è, ad esempio, nel machiavelliano elitista Michels, sindacalista rivoluzionario prima, ideologo fascista poi? Molto, non v’è dubbio. Non si vuole perciò sminuire, affatto, la forza d’urto storica del “mito politico” soreliano, considerato da Gramsci una forma drammatica di “fantasia sociale immaginativa”, capace di operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne ed organizzarne la volontà collettiva nazionalpopolare.
Nel “mito politico” soreliano convivono però i due momenti, quello machiavelliano e quello savonaroliano. Sorel era ossessionato dalla decadenza cui il materialismo borghese stava, a suo avviso, conducendo la Francia e l’Occidente e per questo si mise a studiare la storia degli ordini monastici italiani, nulla di più facile, dunque, che abbia incontrato Savonarola. Che lo abbia incontrato tramite Machiavelli, o senza di lui, è secondario. Tale concreta storicizzazione della forza del “mito politica” fu attuata appunto in Italia da Mussolini, non in Francia; non a caso Sorel, poco prima di morire, considerò l’Italia la sua patria ideale. Tutto ciò ci rimanda ancora al punto da cui si è partiti, ai due poli dell’ideologia italianistica. Machiavelli e Savonarola.
Mazzini e Cavour
La tesi, come si sarà compreso, è che non è possibile la teoria della fase drammatica machiavelliana del “conflitto”, del “turbamento”, se non alla luce della concreta rivoluzione storica e mistico-politica realizzata dal Savonarola. Il savonarolismo influenzò dunque il pensiero machiavelliano ben oltre quanto comunemente si riconosce o si possa credere. Machiavelli e Savonarola come i due vettori del più ardito pensiero politico moderno. Di conseguenza, con uno sforzo di immaginazione, Cavour l’ultrarealista e Mazzini l’idealista rivoluzionario creatore del mito metafisico, “antilluminista” e antigiacobino, di Dio e Popolo. I due grandi Statisti dell’800. Disraeli fu grande, per vari analisti fu il vero creatore del “mondo moderno” e del globalismo contemporaneo. Fu il più grande, insomma. Ma Cavour e Mazzini non furono da meno. Tutt’altro, e sia detto senza boria nazionalistica. Furono loro due i prototipi dell’autentica arte di stato, tramutando il momento machiavelliano e quello savonaroliano in azione politica moderna, politicizzando con grande coraggio d’ignoto i due perenni momenti dello spirito umano. Più ardito e coraggioso il Mazzini, non v’è dubbio. Ma lo stesso Cavour, lo statista di un Risorgimento che era considerato impossibile da tutte le legazioni dell’epoca, fece il suo viaggio nell’ignoto “metastorico” politicizzandolo. Sacrificò però tutto al successo empirico e di questo paghiamo, come italiani, ancora oggi le pesantissime conseguenze. Giuseppe Mazzini, lo statista della Repubblica romana del 1849 che svanì in fuoco e olocausto dei migliori, come narrano le cronache, lo statista repubblicano che influenzò tutti i movimenti patriottici del mondo, dalla Russia all’India, agiva di contro per amore dell’uomo — o ancora meglio del sacro nell’uomo — e della storia. Il successo non era per lui il fine immediato: creare una avanguardia di minoranze sacrificali e “religiose” era il veridico successo. Se ben studiato, nelle sue varie fasi tattiche, si trova molto spirito machiavelliano, molta realpolitik nello stesso Mazzini.
Alla luce della filosofia della prassi del Mazzini e del suo oggettivismo mitico, il “realismo” cavouriano, col suo liberalismo massonico strumentale, sarebbe un elemento regressivo che ha compromesso alla radice l’Autocoscienza morale italiana. L’astratto realismo cavourista avrebbe degradato nelle sue fondamenta l’anima del popolo romano-italiano. Il cavourismo, di conseguenza, è l’assalto Scientista al Mito italianistico. Questo fu il pensiero del Mazzini dal 1860. Cavour fu un corruttore e un sovvertitore. Fu massone, cosa che Mazzini dispregiava, ma fu anche un cattivo politico, nella sua prospettiva. A Cavour, come ad ogni utilitarista politico, sarebbe mancata una superiore, onnilaterale prospettiva strategica. Non avrebbe saputo immaginare il bene storico, sacrificando tutto alla astratta immediatezza; non uno stratega dunque, il Cavour del Mazzini, ma un tattico machiavellico della deteriore specie. Mazzini ammira lo statista prussiano Bismarck, nonostante le differenze ideologiche, vagheggia una alleanza italogermanica contro il blocco massonico occidentale franco-britannico, ma considera viceversa Cavour una pura catastrofe per il popolo e per la storia italiana. Ed in effetti, a più di 150 anni di distanza dai fatti, ancora ci trasciniamo dietro, come Italia, problemi sorti con una unificazione formale, che pare aver radicalmente lacerato l’autocoscienza patria. L’incontro tra i due perenni momenti dello spirito da lì, nella storia italiana, non sarà più possibile. Ma proprio i fatti mostreranno che quando, fugacemente, un incontro vi sarà, sarà tale grazie al dominio ideologico del polo mazziniano, non viceversa. E se pensiero utilitaristico ed individualistico moderno vuol dire “autonomia della coscienza morale”, questa va per Mazzini assolutamente integrata nel simbolo oggettivo (Dio-Popolo) della filosofia della prassi. Altrimenti sarà la catastrofe. L’onnipotenza anglosassone ed estremo- occidentale dell’io, dice con spirito preveggente il Genovese da Laystall Street nel 1852, condurrà all’abisso dell’Io, al rifiuto dello spirito nell’ente uomo.
Gramsci e la filosofia della praxis
La critica gramsciana del mazzinianesimo filosofico-politico, come la sua apertura entusiastica al “giacobinismo teorico” giobertiano, non colgono a mio avviso il nocciolo dell’ideologia nazionalpopolare italiana. Che è anche il nocciolo d’un certo “carattere” italiano che Mazzini, il gran Pedagogo cultore dell’organicità dello stato etico, piaccia o non piaccia, ha comunque formato. Quando i grandi intellettuali dei nostri giorni, senza fare nomi, dal Corriere della sera, irridono il Genovese, “perdente di successo”, “nebuloso teorico della dottrina del martirio”, mostrano chiaramente di ignorare la quintessenza d’una certa italianità, che è di minoranza, d’avanguardia, non è di massa, ma che comunque esiste ed è storicamente operante. Il volontarismo “idealistico” e neostoricistico gramsciano, in evidente rottura epistemologica con la tradizione marxista, dovrebbe corrispondere per il sardo, nella storia italiana, al nesso Riforma protestante più Rivoluzione francese.
La filosofia gramsciana, come quella crociana, è assolutamente storicistica e antigiusnatutalista. Ma il grave limite, strategico, del gramscismo è rincorrere astrattamente il misticismo civile e politico mazziniano senza avere consapevolezza che quello è il fine di tutta la sua filosofia politica. L’Italianismo si è trasformato in movimento storico-universale senza una Riforma protestante, né una rivoluzione francese, né una guerra civile all’ inglese. Dostoevskij ben lo comprese. Il limite strategico della filosofia politica gramsciana diviene perciò il limite della “via italiana al socialismo”, che è un serio progetto strategico. E non a caso lo statista di riferimento di Togliatti era Camillo Benso conte di Cavour.
A. Del Noce ha ragione: l’Italia è stata il teatro strategico del più intenso e evoluto conflitto politico novecentesco. Prima il fascismo, unico movimento che nella storia occidentale ha abbattuto una forma di solida democrazia liberale. Poi il “comunismo gramsciano” in salsa togliattiana e berlingueriana, robespierrista più che marxista ortodosso, fu anche esso più volte sul punto di farlo. Non lo fece però. Perché? Per la sua subalternità strategica all’Urss, sintomo di dubbio metodico e incertezza intima. Non si comprese sino in fondo l’essenza del machiavellismo giacobino gramsciano; il senso del pensiero politico gramsciano era che solo dall’Italia poteva irradiare nell’universo il “vero Comunismo”. Ma ciò avrebbe significato “via religiosa” al Socialismo. Il recupero togliattiano del mazzinianesimo sarà, invece, solo formale, astratto e verrà compiuto per motivi di mera concorrenza ai “fratelli in camicia nera” e ai ceti umili fascistizzati. “Via italiana al socialismo” (Togliatti), ma non percorsa sino alle conseguenze ultime.
Comunque due forme di delnociana “rivoluzione, ulteriore e più intensa di quella marxista pura”, quella fascista e quella parziale togliattiana. Proprio Leeden, che conosce la storia e la politica ben più delle presunte e autoproclamatesi elites europeistiche, scrisse in un testo alla fine degli anni’70 che i soli concreti elementi politici e ideologici strategici-universali, nel Novecento, furono irradiati dall’Italia fascista prima, dalla via italiana al socialismo di Togliatti poi. Motivi geopolitici (il sempre centrale Mediterraneo)? Sicuramente. Ma anche motivi ideologici e “religiosi”.
Il laboratorio italiano
Ed oggi, in conclusione, oltre tutte le doverose critiche del caso, di nuovo l’innovazione che origina dall’Italia, da questo non Occidente che si è venuto a trovare nel campo occidentale. Anche oggi l’innovazione dell’Italia primo laboratorio strategico del “Populismo di stato”. Essere contro o essere a favore non ha importanza. E’ il significato storico e “ideologico” concreto che va colto e che le presunte élite cosmopolitiche non a caso non colgono né coglieranno. Mazzini scrive che spiritualismo e materialismo sono due vie entrambe errate, unilaterali, foriere di un astratto dualismo. La via filosofica religiosa dell’apostolo genovese si fonda sul pensiero quale Rivelazione universale del sacro originario che penetra nell’umanità quale Dio politico e Popolo attivo, creatore di storia e di egemonia mediterranea, universalistica. Una anticipazione del mito soreliano, visto da Gramsci e Schmitt quale incarnazione del machiavellismo del XX Secolo.
Tornando al contesto italiano odierno, sarà in grado tale “populismo” di incarnare, attualizzandola, la missione qualitativa del grande pensiero politico italiano, che oggi non può che significare totale opposizione filosofica, politica e religiosa, sul piano di una autentica Concezione del mondo, moderna e non “primitivistica”, all’alienazione totalitaria tecno-scientifica? Ma è veramente “populismo” quello del governo gialloverde? Quale connessione ha questo governo con l’”Evitismo” peronista argentino, che può essere considerato, oggi, il riferimento più immediato, o storicamente meno lontano, per un serio “populismo di stato” che voglia fare la Storia? Sono in grado queste guide populiste italiane di mobilitare il popolo sulla base del “santo politico” e del mito nazionalpopolare? Quale mito sanno concretamente opporre alla tecnoscienza dilagante? Interrogativi a cui, evidentemente, per ora non si può rispondere. Hanno, in definitiva, costoro la coscienza della lotta vorticosa interna allo spirito del tempo? Qualunque cosa si possa pensare del peronismo, a detta di Kissinger ha modificato non solo la storia argentina, ma anche dell’intero Sud America, ben oltre il castrismo e il caudillismo. Si dirà lo stesso di Salvini e Di Maio tra 50 anni? O saranno ricordati a guisa di meteore inessenziali del divenire storico spirituale?
Perché, tornando al punto di partenza, se “gli stati non si governano con i paternoster”, come era solito dire Cosimo de Medici — il grande nemico di Savonarola —, Mazzini, certo della presenza del divino nella Coscienza umana, affermava lapidariamente: “La più santa Preghiera è l’azione”. Così, la prassi politica o è una arte che incarna, nella praxis, una attiva spiritualità o è destinata a perdere strada rispetto all’eterno naturalismo che sempre avanza, oggi appunto in forma robotica, intellettualistico-artificiale e tecno-scientifica, sino a porre le basi del definitivo scacco del “progetto uomo”.
Opposizione al totalitarismo, in forma soft e liberal, dell’alienazione meccanicistica e tecno-scientifica non può quindi significare neo-luddismo o statico conservatorismo ma viceversa balzo in avanti di quello che proprio Mazzini, in “Fede e Avvenire”, definisce “Pensiero Vivente e Assoluto”.
Fonte -https://sollevazione.blogspot.com/2019/03/machiavelli-e-la-politica-italiana-di.html