Clan Mafia nigeriana, tutti col permesso umanitario

E’ ufficiale, la Mafia nigeriana è arrivata sui barconi
Praticamente tutti i membri avevano il permesso di soggiorno umanitario. Quello che viene abolito dal decreto Salvini e che componenti degradate della società vorrebbero rimanesse.
Il clan mafioso era specializzato nel traffico di droga e nella tratta di esseri umani. Tutti i membri entrati in Italia da almeno tre anni.
La maggior parte faceva credere di vivere di espedienti: alcuni componenti dell’organizzazione controllati dagli investigatori nei mesi che hanno preceduto gli arresti, sono stati segnalati davanti a bar e supermercati mentre chiedevano l’elemosina.
Insomma, se ce ne fosse stato bisogno, ora è ufficiale: la mafia nigeriana è arrivata sui barconi
FONTE: https://voxnews.info/2018/11/23/clan-mafia-nigeriana-tutti-col-permesso-umanitario/

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ROMA NEWS: Torino, i mafiosi nigeriani? Gli ultimi boss arrivano da Lampedusa

Sono i Maphite, che si uniscono ai Black Axe, Bucaneer e Sea Dogs: «I gruppi si scontrano e si picchiano, hanno i loro club e bar. Le persone accoltellate non denunciano, perché hanno paura o non sono in regola con i documenti»

L’uomo impaurito siede in silenzio davanti agli agenti della squadra anti-tratta della polizia locale di Torino. Vuole restare anonimo, perché teme per la sua vita e per quella dei suoi familiari. Ma quando comincia a parlare, il suo racconto si trasforma in un fiume in piena. «In città è tutto come prima, non è cambiato nulla», sono le sue prime parole. «Sono tornati gli Eiye e ci sono ancora i Black Axe. Con loro anche i Bucaneer, i Maphite e i Vikings. E poi i Sea Dogs e i Man Fight.
I gruppi si scontrano e si picchiano, hanno i loro club e i loro bar. Le persone accoltellate non denunciano, perché hanno paura o non sono in regola con i documenti». Gli ultimi arrivati sono i Maphite. «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro, perché sono più pericolosi di chi li ha preceduti. Possono accoltellare e uccidere. Non hanno nessun rispetto per la vita, hanno già sofferto troppo attraversando prima il deserto e poi il mare per arrivare in Italia».
Metodo mafioso
La denuncia dell’uomo che ha paura è ora agli atti dell’inchiesta che ha vivisezionato la criminalità nigeriana all’ombra della Mole e dimostrato che è mafia. «Mafia straniera». Una «struttura associativa» che opera come operano «la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese». A parlare di «vincolo associativo» e di «metodo mafioso», di «assoggettamento» e di «omertà» è il giudice Stefano Sala nelle 686 pagine con cui motiva le condanne (fino a dieci anni di carcere) inflitte il 12 gennaio a 21 appartenenti agli Eiye e ai Maphite. Gruppi che il giudice definisce «secret cults», adottando così l’espressione che viene normalmente utilizzata a Lagos e a Benin City. Nell’ambito della comunità nigeriana di Torino — sottolinea il gup — i “secret cults” incutono timore e fanno paura, al punto da provocare l’insorgenza di veri atteggiamenti omertosi». Ma «pur senza avere il controllo di tutti coloro che vivono o lavorano in un determinato territorio», i mafiosi nigeriani «hanno la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone immigrate o fatte immigrare clandestinamente». Ed è proprio sui clandestini che il giudice insiste nella sua sentenza, soprattutto quando scrive che «i moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni». «Tra gli immigrati appena sbarcati a Lampedusa — aggiunge Sala — vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina», «ricompensati con 30 mila euro» nel momento in cui riescono a superare i controlli e portare lo stupefacente a destinazione.
Gli «stipendi»: per il Don 35mila euro ogni 3 mesi
E a proposito di denaro, chi si confida con il pm Stefano Castellani rivela che l’uomo che ricopre la «carica più importante» all’interno della mafia nigeriana viene definito «Don» e riceve uno «stipendio di 35 mila euro ogni tre mesi». Quasi quanto un manager di una municipalizzata italiana. Dopo di lui c’è il «Deputy Don», con 17 mila euro (sempre ogni tre mesi). Poi il «Chief», con 11 mila. Fino a scendere a uno stipendio di «9 mila euro ogni novanta giorni». «Dall’appartenenza ai Maphite ho avuto vantaggi economici — racconta l’informatore —, prendevo 9.500 euro ogni tre mesi e me li versavano sul mio conto corrente bancario. Chi non ha incarichi e propone un “business”, prende una percentuale sui guadagni. Può capitare che un semplice affiliato segnali l’arrivo di una ragazza dalla Nigeria: se i Maphite decidono di intervenire, di sequestrare la prostituta dalla strada e di chiedere infine alla “madame” un riscatto tra i 10 e i 15 mila euro, chi ha proposto l’affare prende 2 mila euro se tutto va a buon fine». Tra le attività illegali gestite dai nigeriani c’è naturalmente il traffico internazionale di droga. Dalla Colombia la cocaina arriva nel cuore dell’Africa: in Benin, in Ghana, in Nigeria. «Da qui poi lo stupefacente deve rientrare in Europa e per farlo vengono usati corrieri reclutati tra persone gravemente malate, che non rimangono in carcere a lungo a causa delle loro condizioni di salute».
Violenza e estorsioni
Il metodo mafioso, poi, prevede violenze e ritorsioni anche nei confronti delle famiglie rimaste in Nigeria: «Un membro dei Maphite è andato a casa di un componente dei Black Axe e ha ucciso la madre, tagliandole il corpo a pezzi. Poi ha portato i resti nella scuola dove il figlio della donna stava seguendo la lezione e li ha buttati lì, scatenando il panico e il terrore. Sono scappati tutti via. Dopo due mesi da questo episodio, i Black Axe sono andati a casa della mamma di un componente dei Maphite e hanno cavato gli occhi ai suoi genitori e poi li hanno decapitati con un’ascia». In un’altra occasione, i Maphite «sono andati in Nigeria a prendere a scuola i figli» dell’uomo che aveva «sgarrato», «li hanno portati a casa e hanno sparato alla loro mamma, uccidendola, e facendoli assistere».
Gli avvocati
Anche gli avvocati hanno paura. Nelle carte viene infatti riportato il caso di un detenuto che ha ricevuto minacce in carcere dopo che ha deciso di «dissociarsi dal sodalizio criminale». A quel punto, sottolinea il giudice, l’uomo «era stato invitato dal suo legale a ripensarci e in caso contrario a reperire un nuovo difensore, essendo assolutamente determinato a rimettere il mandato in simili circostanze». Alla moglie del detenuto era stata poi recapitata una lettera: «L’Italia e la Nigeria sono troppo piccole — c’era scritto — per poter sfuggire alle ritorsioni dei Maphite». «Il fatto è — come spiega un altro ex affiliato — che una volta entrati nel gruppo non si può più uscirne, si può smettere di farne parte solo con la morte». E la morte ti perseguita ovunque, sia in Italia sia all’estero. Nelle motivazioni della sentenza si legge a un certo punto di «una persona che aveva deciso di uscire dall’organizzazione. I Maphite gli hanno reso la vita impossibile, sono andati a casa sua in Italia, gliel’hanno bruciata e gli hanno bruciato l’automobile. Lui è scappato in Finlandia, con tutta la famiglia. I Maphite lo hanno trovato anche in Finlandia, gli hanno rotto i piedi e adesso gira con le stampelle. Infine questa persona è stata costretta a trasferirsi in Canada». Chi non è convinto che si tratti di mafia è uno degli avvocati che hanno rappresentato la difesa, Manuel Perga. Nel suo atto d’appello si legge infatti che «è del tutto carente la prova di una concreta ed evidente manifestazione esterna della forza intimidatrice, di un chiaro legame con la casa madre e di un programma criminoso delineato nei suoi tratti essenziali». Per questi motivi, conclude il legale, «non può dirsi provata la matrice “mafiosa” dell’associazione». Toccherà alla Corte d’Appello decidere se è così.

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