Tratto da
Enciclopedia Cattolica, Vol. IV, Coll. 117-119,
Imprimatur 8 ottobre 1950. Per comunicazione nelle cose sacre o
communicatio in sacris si intende la partecipazione dei cattolici alle cerimonie sacre (preghiere, funzioni, prediche, riti) compiuti dagli acattolici (eretici, scismatici, infedeli) dentro o fuori della loro chiese o templi. Questa partecipazione può essere: attiva, quando, cioè, si prende parte al culto religioso positivamente, compiendo qualche atto, che con esso abbia relazione; passiva, quando vi si prende parte solo negativamente, astenendosi da ogni azione, che dica relazione con la cerimonia religiosa; formale, quando vi sia l’adesione della mente e del cuore; materiale, quando quest’adesione manca e tutto si riduce ad un atto di presenza esteriore e fisica. La comunicazione nelle cose sacre si suole designare con il nome di comunicazione
in divinis, per distinguerla dalla comunicazione
in profanis cioè nelle relazioni private e pubbliche che riguardano la vita domestica e civile, e dalla comunicazione
in rebus mixtis, cioè nelle relazioni, le quali importano atti che si possono considerare o hanno un lato anche religioso, come i matrimoni, i funerali e cerimonie simili. La condotta dei cattolici a questo riguardo è regolata in linea di massima dal CIC (
Codex Iuris Canonici del 1917), e nelle varie sue applicazioni dalle norme emanate dalle Sacre Congregazioni romane.
La comunicazione
in profanis. – Secondo il diritto canonico vigente, è lecita, quando non vi sia pericolo di danno spirituale; illecita, quando questo pericolo vi sia. Perciò si devono evitare anche quelle azioni, le quali, massime in alcune determinate circostanze, possono significare o importare una familiarità o confidenza o dimestichezza eccessive, e per conseguenza pericolose, con gli acattolici, specialmente per le persone «semplici e deboli nella fede» (cf.
Sum. Theol., 2
a-a
ae, q. 10, a. 9). Le relazioni con gli scomunicati
vitandi sono regolate da norme particolari (CIC, can. 2267).
La comunicazione
in divinis. Non è mai lecito ai fedeli di assistere attivamente o prendere parte, in qualsiasi modo, ai riti sacri degli acattolici (CIC, can. 1258 § 1). Ciò vale non soltanto quando si tratta di riti falsi o empi in se stessi, ma anche quando si tratta di quei riti che sono propri di questa o quella setta o gruppo eretico, scismatico, pagano. Perché simile partecipazione equivale alla professione di una falsa religione e per conseguenza al rinnegamento della fede cattolica. E anche nel caso che ogni idea di rinnegamento potesse escludersi, rimangono sempre tre danni assai gravi: 1) il pericolo di perversione nel cattolico che vi partecipa; 2) lo scandalo, sia dei fedeli, che prendono motivo di giudicar male della persona che tratta con gli avversari della fede e forse anche di dubitare della verità di essa, sia degli acattolici stessi, che così si confermano nel loro errore; 3) l’indifferentismo in materia di religione, cioè l’approvazione esteriore di credenze erronee e l’idea che l’espressione esterna della propria fede sia una cosa trascurabile.
Continua a leggere