Il Procuratore Gratteri a Paola: "Fare pulizia tra i magistrati. E anche tra i giornalisti"

Gratteri a Paola discute di giustizia e informazione partendo dal ricordo di Enzo Lo Giudice, avvocato di Craxi in “Mani pulite”. «Io ministro della Giustizia? Chi mi vuole bene dice che mi sono salvato». Belpietro: «I magistrati che sbagliano vanno sospese.
PAOLA  «Tra alcuni avvocati e alcuni clienti l’ampiezza della scrivania si è ridotta. Permettere questo, soprattutto in ambito penale, è molto pericoloso. Ma è pericoloso non tanto per i rapporti che si creano con i clienti ma con i colleghi avvocati. Francamente, ce ne sono troppi, e troppe sono anche le cause che non dovrebbero stare in tribunale». Nicola Gratteri nel chiostro di Sant’Agostino, a Paola, risponde così alla prima domanda del giornalista Gianluigi Nuzzi. Gli avvocati Marcello Manna e Francesco Scrivano annuiscono. L’umidità di un forte temporale estivo si mescola con il calore umano di una platea che si accomoda per commemorare uno dei più grandi avvocati della storia repubblicana: Enzo Lo Giudice. «Lo dico sempre ai giovani – continua il magistrato – non cercate scorciatoie, non servono, fate in modo che con i vostri clienti la scrivania abbia un margine ampio». E la scrivania di Enzo Lo Giudice era ampia. Legale di Craxi nel processo “Mani Pulite”, formazione comunista, ma soprattutto garantista puro come ricorda il suo prima praticante, ora avvocato, Francesco Scrivano. Difendere il leader socialista nel tornado giudiziario messo in piedi dal pool di “Mani Pulite” dei tre magistrati Davigo-Di Pietro-Colombo, significò per Lo Giudice confrontarsi anche con il primo episodio vero in Italia di quello che oggi si definisce “processo mediatico”. Da allora tutto cambiò. Anche un avviso di garanzia si trasformò in udienza sulle colonne dei giornali. «I direttori delle testate italiane più importanti – dice Scrivano – si chiamavano per mettersi d’accordo sul titolo da dare il giorno dopo». Continua a leggere

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Queste sono le domande che qualunque giornalista dovrebbe porgere all’esercito israeliano

di Tossi Gurvitz
Queste sono le domande che qualunque giornalista dovrebbe porgere all’esercito israeliano
Fonte: Comedonchisciotte
Mentre queste righe vengono scritte i cecchini dell’IDF hanno ucciso più di 40 palestinesi vicino alla barriera di Gaza e ferito altri 2,200, una dozzina è considerata essere stata ferita mortalmente. Nello stesso momento in cui leggete queste parole, i numeri sono probabilmente già saliti. Il portavoce dell’IDF ha l’abitudine di sostenere che i suoi cecchini fossero “in pericolo”. Quando sentite queste parole, pensate all’operazione Speedy Express.
Speedy Express venne effettuata dalla nona divisione di fanteria dell’esercito statunitense nel delta del Mekong nel 1969. L’esercito statunitense sosteneva di avere ucciso 10,899 combattenti avversari. Soffrì soltanto 244 perdite. Stando a Saigon, un giovane genio chiamato Alexander Demitri Shimkin, un veterano delle marce per i diritti civili, lasciava perplessi i suoi colleghi giornalisti con uno strano passatempo: si scomodava a leggere davvero i comunicati ufficiali e tabulava quel che c’era scritto.
Dopo alcuni mesi, Shimkin mise insieme una strana statistica: la nona divisione sosteneva di avere ucciso 10,899 combattenti ma aveva catturato soltanto 748 armi. La conclusione di Shimkin era semplice: la disparità tra i morti e le armi catturate significa che la maggioranza delle persone uccise in Speedy Express non erano combattenti ma civili. Fu problematico per Shimkin trovare un editore disposto a pubblicare questo primo esempio di data journalism e il Newsweek lo pubblicó solo nel 1972. Ció nonostante la pubblicazione causò una tempesta di fuoco politica, con l’esercito statunitense forzato a prendere rifugio nella disperata affermazione che “molte unità della guerriglia non erano armate di armi”. Continua a leggere

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