Roma, 12 gen – Chiunque abbia minimamente studiato la storia dei «cuori neri» degli anni Settanta sa bene come la particolarità di quelle morti non stia nel fatto che, all’epoca, si perdesse la vita solo militando nei ranghi della destra. Ai cuori neri, infatti, fanno da contraltare i cuori rossi, le cui madri non hanno certo versato meno lacrime. C’è, però, una differenza cruciale, fra le storie dei caduti rossi e neri degli anni Settanta: attorno alle tragedie dei secondi si attivò un meccanismo giustificatorio del tutto sconosciuto alle uccisioni dei primi. In nessun consiglio comunale dell’epoca risuonò un applauso per la morte di un caduto rosso, come invece accadde a Milano quando si diffuse la notizia del decesso di Sergio Ramelli. In nessuna villa di Fregene il jet set culturale dell’epoca pasteggiò a champagne per la scarcerazione di qualche stragista nero, come invece capitò nella villa di Moravia quando liberarono i massacratori di Primavalle. I Nar non furono mai «sedicenti», come invece, in molte redazioni, vennero definite le Brigate rosse. Sui giornali dell’epoca, i comunisti non morivano mai per autocombustione o per «faida interna», come invece succedeva regolarmente ai neri. Uccisi una volta, dal piombo delle pistole. Due volte, dal piombo dei caratteri tipografici, dai giornali, e non solo quelli estremisti, che relativizzavano, insinuavano, sminuivano. Tre volte, da una giustizia che spesso non arriverà mai. Quattro volte, dal tentativo di processarne persino il ricordo.
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