di Roberto Zavaglia
Potenza degli hacker russi: ne sono bastato tredici per stravolgere l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi, trascinando alla Casa Bianca Trump al posto della favoritissima Clinton. Dopo mesi di indagini e di grida di allarme di tutta la stampa internazionale per l’intollerabile intromissione di Putin, lo scorso febbraio il procuratore speciale Mueller ha infine incriminato 13 cittadini russi e tre “entità” russe che con la loro attività da troll nei social network sarebbero riusciti a condizionare la scelta di milioni di cittadini. Le indiscrezioni sul budget di cui avrebbero potuto disporre per accamparsi in pianta stabile su Facebook, Twitter e YouTube questi instancabili manipolatori del consenso variano da 100mila euro a circa il doppio.
Se non fosse noto il livello di subalternità della stampa mainstream di tutto l’Occidente ai potentati economici e politici che avevano accanitamente tifato per il successo della Clinton, ci sarebbe da stupirsi come, dopo l’ufficializzazione di un così modesto complotto, peraltro ancora tutto da provare, non abbia fatto seguito l’ammissione che il Russiagate è solo una bolla di sapone o un’enorme fake news, per usare un termine usato spesso dai grandi media contro l’informazione non allineata. Anche a voler prescindere dal divario di fondi usati per la campagna elettorale tra Clinton e Trump (1, 4 miliardi di dollari contro 500 milioni) è grottesco immaginare che un gruppetto di smanettoni sia risultato decisivo per mettere al tappeto la candidata democratica che ha potuto contare sull’appoggio di pressoché tutta la stampa statunitense la quale ha passato mesi a demonizzare Trump, tacendo sulle piuttosto note magagne della propria beniamina. Si è arrivati al punto che l’improbabile candidato del Partito Libertario Gary Johnson ha ricevuto l’endorsement di sei giornali minori, mentre il candidato dei repubblicani non ne ha avuto alcuno. Lo stesso caso delle mail trafugate dagli archivi del Partito Democratico e pubblicate da WikiLeaks dimostra la faziosità dei media: si è andati anche qui alla ricerca di fantomatici hacker russi invece di porre l’accento sulla scoperta dei comportamenti “disinvolti” della Clinton, non ultimi i metodi illeciti con cui ha ottenuto la nomination a scapito di Bernie Sanders.
Piuttosto che preoccuparsi di surreali trame del Cremlino, i watch dog Usa ( i giornalisti, celebrati come i guardiani della Costituzione ) farebbero bene a interrogarsi sulla condizione di un sistema politico e di una società civile in cui tutti i giornali e le televisioni appoggiano lo stesso candidato per poi scoprire che i cittadini concedono la vittoria al rivale. Se fossimo adusi alla retorica in voga tra i liberali, potremmo dire che oltreatlantico “la garanzie democratiche sono in pericolo”. Nonostante persino un producer della Cnn, la televisione che più ha martellato in argomento, abbia ammesso, in un video “rubato”, che il Russiagate è bullshit ( spazzatura, per usare un eufemismo), i media insistono ancora perché, se non sono riusciti a bloccare l’elezione di Trump, sono stati però capaci di condizionarlo, soprattutto nell’atteggiamento verso la Russia. Agli esordi della sua carriera politica, Trump si presentava, al contrario della Clinton, come un leader che avrebbe improntato al pragmatismo i rapporti con Mosca, in nome di quell’America first che prevedeva la massima difesa dell’interesse nazionale, ma non velleità messianiche e crociate ideologiche. Adesso, il presidente, per scrollarsi di dosso le accuse di essere succube di Putin, fa invece sfoggio di aggressività contro la Russia, incrementando le sanzioni nei suoi confronti e minacciando addirittura l’abolizione unilaterale del Trattato “Inf” sulle armi nucleari a media gittata. Con il risultato di rimettere l’Europa al centro di un eventuale conflitto atomico.
Come è noto a chi conosca un po’ il funzionamento del sistema politico statunitense, la volontà del presidente, soprattutto in politica estera, è ben lontana dall’essere assoluta. Oltre ai media, il cosiddetto Deep State ha operato per mutare la postura di Trump verso Mosca, con in prima fila i Servizi, che per l’occasione non sono più, nel racconto della stampa “progressista”, i farabutti della Cia di un tempo, ma sono diventati la rispettata “comunità dell’Intelligence” le cui valutazioni hanno valore oracolare. Anche in Europa il Russiagate è servito per rinfocolare l’isteria contro la Russia, in un crescendo di accuse di ogni tipo, dai soliti hacker in grado di sobillare l’opinione pubblica, alle spie venute dal freddo che si troverebbero dappertutto, fino alle accuse di omicidi commissionati da Putin in persona, che vengono tanto più conclamati quanto meno sono le prove esibite per dimostrarli. Per fare solo un esempio, nella vicenda di Sergej Skripal, l’ ex agente russo doppiogiochista da tempo “in pensione”, avvelenato a Salisbury insieme alla figlia nel marzo scorso, la Gran Bretagna è riuscita ad ottenere da parte da molti Paesi l’espulsione di svariate decine di diplomatici russi, pur asserendo di non potere fornire prove per motivi di sicurezza… In seguito Londra ha “sostanziato ” la propria accusa diffondendo le foto di due tizi russi a spasso per la cittadina inglese come “prova definitiva”. Per non parlare delle presunte ricchezze favolose di Putin che, nascoste all’estero, testimonierebbero la sua corruzione, di cui non ci è mai stato finora mostrato un rublo.
Di prove di un’enorme attività di spionaggio, anche e soprattutto a danno dei Paesi europei, ce ne sono invece di solide, ma non riguardano la Russia. E’ del 1998 la “scoperta” di Echelon, un sistema di sorveglianza globale gestito dagli Usa, in collaborazione con i “fratelli anglosassoni” di Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, a dimostrazione che nell’alleanza occidentale qualcuno, grazie alla propria origine “culturale”, è più alleato degli altri. Nello stesso anno, un rapporto del Parlamento europeo svelava che questa rete poteva intercettare, selezionare e decodificare ogni fax, telefonata, messaggio di posta elettronica, per poi immetterli in una banca dati computerizzata. Dal centro strategico di Menwith Hill, in Inghilterra, le informazioni di qualche interesse venivano infine mandate alla centrale della National Security Agency negli Stati Uniti. Nel rapporto si leggeva che, dopo la fine della Guerra fredda, il sistema era stato orientato verso obiettivi anche non militari: “A differenza di altri sistemi di spionaggio elettronico della rete Ukusa, il sistema Echelon è diretto principalmente contro obiettivi civili, governi, organizzazioni e aziende di praticamente ogni Paese del mondo”. Per dare l’idea della posta in gioco, questa rete consentì alla Nsa, ai tempi della presidenza di Bill Clinton, di fare aggiudicare una commessa di enorme valore, in Arabia Saudita, all’americana Boeing ai danni dell’europea Airbus. L’esistenza di Echelon è stata in seguito ammessa dall’ex direttore della Cia James Woolsey.
Dopo tali rivelazioni, si poteva immaginare che qualcosa sarebbe cambiato e che gli spioni Usa avrebbero almeno usato qualche maggiore riguardo verso gli “alleati”. Il cambiamento, come si è constatato nel 2013 con il caso Datagate, è consistito invece nel potenziamento ed estensione ulteriori dello spionaggio elettronico da parte della Nsa. Le rivelazioni di Edward Snowden, ex collaboratore dell’agenzia, hanno mostrato che nella sola Germania, la nazione più passata al setaccio, ogni giorno vengono intercettati 10 milioni di dati internet e 20 milioni di telefonate, comprese quelle del cellulare personale della cancelliera Merkel. Lo spionaggio statunitense, che pare il frutto di una paranoica volontà di controllo assoluto, arriva ovunque: ambasciate, sedi Nato, dell’Unione Europa, dell’Onu, vertici internazionali. Esiste perfino un programma, chiamato Follow the money, che raccoglie dati sui pagamenti di soggetti privati effettuati tramite carta di credito. Il sistema continua infatti ad essere finalizzato anche ad avvantaggiare illecitamente le aziende Usa rispetto alle concorrenti di qualsiasi altro Paese. Strano che almeno questo aspetto, in un’Unione europea così sensibile a un decimale in più o in meno di Pil e di deficit, non abbia suscitato una dura reazione.
Certo, qualche richiesta di spiegazione, più o meno risentita, gli europei l’hanno fatta, qualche generica rassicurazione dagli Stati Uniti è arrivata, ma la questione è stata presto dimenticata, senza che ci sia alcun elemento tale da far pensare che le cose, nel frattempo, siano cambiate. Addirittura, alcuni file segreti della Cia, di cui sempre Wikileaks è riuscita a venire in possesso nel 2017, svelano che l’agenzia Usa, in combutta con i gemelli inglesi del MI5, avrebbe sviluppato un software per ascoltare attraverso le televisioni di nuova generazione le conversazioni che si svolgono nella stanza dove è posizionato l’apparecchio. E nonostante tutto ciò, il vero pericolo da affrontare, nel racconto mediatico, è quello dello spionaggio russo. Per dare un’idea della potenzialità dei servizi informativi delle due potenze nucleari, basta citare un dato che pare quasi incredibile: nel 2013 gli statunitensi hanno speso 53 miliardi per le proprie 17 agenzie di servizi segreti, più di quanto Mosca stanzia per tutto il settore della Difesa, armi atomiche incluse! Secondo le stime del 2016, gli Usa hanno investito nell’apparato bellico oltre 1.000 miliardi di dollari, il 40% della spesa mondiale, mentre l’ “espansionista” Russia si è fermata a una cinquantina di miliardi, circa il doppio di quanto spende l’Italia che tutto può essere definita tranne una potenza militare.
Putin, Vladimir il Terribile, resta comunque, per gli opinionisti occidentali, il nemico assoluto che mette a rischio la pace manovrando senza scrupoli la quinta colonna dei sovranisti e dei populisti europei. Per dimostrarlo non ci si ferma di fronte al grottesco: Eugenio Scalfari, il quale si deve essere perso qualche puntata, è arrivato ad affermare che “Putin è il leader del comunismo mondiale”. Al genere comico puro appartiene invece la rivelazione dell’ex direttore del Sole 24 Ore Gianni Riotta che, in trasferta a Mosca per i Mondiali di calcio, ha messo in guardia tutti i tifosi presenti avvertendo che “la Corte Suprema russa concede alla polizia di sequestrare tutti i cellulari a chiunque, russo o no, se posta sui social media critiche al governo Putin”. Strano non si siano formate code oceaniche davanti agli ingressi degli stadi provocate dalla polizia intenta a controllare le chat degli spettatori…
Per provare a spiegare l’isteria generalizzata verso Putin, Guy Mettan, che all’argomento ha dedicato il suo libro Russofobia, ha scritto sulla rivista Limes che la criminalizzazione del capo del Cremlino va inquadrata nel contesto della storica ostilità della cultura europea nei confronti del grande Paese slavo: “la Russia sarebbe intrinsecamente espansionista, imperialista e annessionista. (…) Tale griglia di lettura è declinata all’infinito, in tutte le sfumature del grigio e del nero, da mille anni a questa parte quale che sia il regime –zarista, comunista o liberale- e il comportamento sulla scena internazionale”. (1) Senza voler sottovalutare i pregiudizi di questo genere, simili del resto a quelli nutriti dall’Occidente nei confronti di ogni cultura “troppo differente”, ci sembra che nel caso della Russia di Putin ci sia anche qualcosa di più. Dal momento che il 2018 è stato l’anno del centenario della nascita e il decennale della morte di Aleksandr Solgenitsin, “celebrato” in Occidente con imbarazzo poiché il suo anticomunismo non è strumentalizzabile a scopi propagandistici, essendo congiunto all’amore per la radici culturali slave e alla critica delle società liberali, è opportuno ricordare che ci sono state personalità alle quali il sostegno alla Russia, anche nei casi più indifendibili, non ha affatto nuociuto alla carriera politica. Commentando la condanna dell’esilio inflitta all’autore di Arcipelago Gulag, il presidente emerito Giorgio Napolitano, oggi fiero atlantista, ebbe modo di scrivere queste parole imbarazzate e imbarazzanti: “Non c’è dubbio che questo atteggiamento –al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici- di Solgenitsin, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’Urss. Che questa estrema ‘incompatibilità’ sia stata sciolta dalle autorità sovietiche non con un’incriminazione di Solgenitsin, ma con la sua espulsione, può essere considerato più o meno “positivo”.
La questione non è dunque la Russia, ma la Russia indipendente e sovrana di Putin: quella di Eltsin, per dire, andava bene all’Occidente. Per comprendere come gli Stati Uniti intendano i rapporti con Mosca, un articolo apparso su Foreign Affairs, una rivista di politica internazionale “autorevole” per antonomasia, a firma dell’ex ambasciatore a Mosca Michael McFaul, può essere illuminante. L’autore premette di avere un approccio moderato alla questione e di riconoscere che un’azione di regime change, di tipo “neoconservatore”, risulta impossibile finché Putin è al comando: tocca attendere la sua uscita di scena in un modo o nell’altro. Occorre però che Washington elabori una “grande strategia” per fronteggiare il presidente russo perché il vero problema, e qui torniamo alla consueta ossessione, è controbattere la massiccia propaganda russa ( i soliti hacker, la televisione Russia Today, notoriamente la più seguita in Occidente, e l’agenzia di stampa Sputnik, anch’essa compulsata quotidianamente da legioni di studenti e casalinghe… ) che mina la compattezza del mondo libero. Per Mc Faul occorrono quindi regole molto più stringenti e maggiori controlli sui social media. Ecco, per esempio, una delle soluzioni pratiche escogitate: “le piattaforme social dovrebbero fornire fonti da media di notizie più affidabili; ogni volta che appare un articolo un articolo o un video di Russia Today, sostenuta dal Cremlino, dovrebbe spuntare vicino ( pop up) un pezzo della Bbc.”. (2) Inoltre “le fondazioni e i filantropi occidentali devono dare maggiori supporti al giornalismo indipendente, compreso quello che realizza servizi in russo sia dentro che fuori il Paese. Essi dovrebbero fondare nuove organizzazioni con server fuori dalla Russia per evitare la censura e per aiutare i giornalisti, proteggendo le loro identità e quelle delle loro fonti”. (3)
Pur nella loro banalità, queste indicazioni spicciole, concepite da un analista rispettato allo scopo di aumentare la censura interna e di provare a destabilizzare la Russia, mettono in luce la cecità con cui l’Occidente liberale si rapporta al resto del mondo. Per gli altri si invoca quello che si giudica intollerabile in casa propria. Si correggano quindi le “falsità” di Russia Today, sostenuta dal Cremlino, con le “verità” della Bbc, che è invece di proprietà dello Stato britannico, perché tutto ciò che proviene da noi, i buoni, è di per sé giusto, mentre gli altri, i semicivilizzati, possono solo mentire e confondere le acque per scopi inconfessabili. Dopo il crollo dell’Urss e il quasi fallimento dello Stato del periodo di Eltsin, il mondo liberale, sia quello politico che quello culturale, credeva di essersi liberato per sempre dell’identità nazionale russa e che potesse verificarsi quello smembramento del suo storico spazio geopolitico in diversi Stati, facilmente controllabili, preconizzato dagli strateghi alla Brzezinski. Il fatto che la Russia sia di nuovo in piedi fa impazzire di rabbia sia i trombettieri della propaganda giornalistica come i tromboni che si pretendono equilibrati analisti.
Note
1) Limes; numero 12/2017; pagg. 181
2) Foreign Affairs; numero 4/2018; pagg. 88 (traduzione mia).
3) Ivi; pagg. 90
FONTE: Diorama letterario