Le migrazioni, oltre i confini storici della destra e della sinistra

Le migrazioni, oltre i confini storici della destra e della sinistradi Sergio Cabras
Fonte: L’alternativa neo-contadina
Karl Marx vedeva la colonizzazione dell’India da parte del capitalismo inglese come un evento positivo, in quanto passaggio necessario perché quei popoli – come già prima di loro quelli europei – si affrancassero da un sistema sociale medievale ed un’economia incentrata sulla terra e trovassero le premesse (sebbene nello sfruttamento) che avrebbero innescato i meccanismi storici da cui sarebbe sorta una coscienza ed una lotta di classe, indirizzandoli poi necessariamente, come sappiamo, verso il comunismo.
Come sappiamo così poi però non è stato, e sappiamo pure cosa è successo dove, invece, quei meccanismi storici fino al comunismo ci sono arrivati. Nondimeno abbiamo tuttora chi, rileggendo il discorso in chiave aggiornata, ripropone una visione analoga dei percorsi che la Storia sarebbe destinata a seguire. Nel mio libro (“L’alternativa neo-contadina“) ho dedicato parte di un capitolo a commentare alcuni passaggi del noto saggio di Toni Negri (scritto insieme a M. Hardt) Imperonel quale si ipotizza che il sistema del capitalismo avanzato nella sua attuale versione globalizzata, costituitosi ormai in “Impero”, abbattendo di fatto – e via via anche di diritto – ogni frontiera, statale, ma anche normativa e culturale, finirà per avere come effetto collaterale quello di unire le masse degli sfruttati e degli esclusi configurando una “moltitudine” mondiale che si ribellerà su scala planetaria e rifonderà un’umanità (nuova, come sempre in questo tipo di teorie) di eguali. Questo in davvero estrema sintesi (rimando al lavoro di Negri ed Hardt per approfondire e, volendo, anche al mio libro per chi fosse interessato alla mia critica a riguardo).
Però, oltre ai condivisibili motivi umanitari, sarà forse anche in quest’ottica che la Sinistra è così nettamente schierata a favore di un’apertura ai fenomeni migratori con una convinzione così netta da andare spesso al di là della solidarietà umana e parer sconfinare in un buonismo ideologico, acritico, che non tiene conto delle reali cause del fenomeno? Voglio precisare subito – perché in quest’epoca di comunicazioni veloci e virtuali si fa presto a vedersi affibbiate etichette – che non sono un sovranista e meno che mai un nazionalista: francamente mi sento più un abitante del mondo che un italiano o un europeo né mi importa nulla di avere la pelle bianca o meno; mia moglie è nepalese e quando ho potuto ho dato una mano ad amici e parenti stranieri a cercare un futuro migliore in paesi diversi dal loro di origine. A livello umano nei confronti di chi ci troviamo davanti una mano bisogna darla a chi è in difficoltà: viviamo in un mondo ingiusto e se siamo stati più fortunati di altri a nascere in un paese ricco non è merito nostro – anzi, se guardiamo al perché storicamente il nostro è ricco ed altri son poveri, più che di non-meriti si dovrebbe parlare di responsabilità, se non di colpe, almeno come popolo.
Per cui mi è chiarissimo che l’atteggiamento della Destra verso i migranti mostra che, come spesso accade, questa parte politica esprime gli aspetti peggiori, più egoisti e talvolta perfino disumani della società, di fronte alle tragedie altrui. Però almeno lo fa in modo chiaro, rivendicando di essere ciò che è, e forse per questo spesso convince più persone.
La Sinistra, infatti, sul tema delle migrazioni sembra trovare, col suo (ipocrita) atteggiamento buonista, la contraddizione finale che mette in dubbio la sua stessa ragion d’essere in questa fase storica.
Facendo qualche considerazione sugli attuali fenomeni migratori non si può non notare che sono in contraddizione – non parliamo con gli effetti che ci si sarebbe dovuti attendere (secondo il credo liberista) da decenni di cooperazione internazionale allo sviluppo, politiche di aggiustamento strutturale di Banca Mondiale e FMI, crescita complessiva del PIL globale…., ma anche – con la tendenza storica che, stando a Marx (ed, ahimé, a Negri) sarebbe dovuta derivare dal diffondersi dell’industrializzazione e dello Sviluppo in tutto il mondo: ovvero che masse di operai industriali, e comunque salariati, anche nel “Terzo Mondo” avrebbero via via preso coscienza e combattuto per i propri diritti fino ad ottenere condizioni di vita e stipendi sempre più equiparati a quelli vigenti nei paesi di più antica industrializzazione. Che fosse attraverso un progressivo arricchimento generale o passando per la lotta di classe, non era questa, del resto, la promessa win-win dello Sviluppo? E questo in parte c’è anche stato, però, essendo le cose spesso più complesse di come ce le raccontano, dove lo sviluppo ha preso forma democratico-liberista l’apertura economico-commerciale ha permesso che facessero prima le multinazionali straniere a colonizzare mercati e governi locali che un’economia locale a strutturarsi a propria misura, mentre dove si è voluto prevenire questa deriva lo si è dovuto fare con istituzioni politiche centralizzate, autoritarie, che – fosse vero o meno – sono presto state tacciate, dalla cosiddetta “comunità internazionale”, di essere contrarie ai diritti umani e alla democrazia e quindi abbattute militarmente o economicamente (o tutt’e due) lasciando al loro posto caos, guerre civili, fame e macerie; mentre altri stati altrettanto irrispettosi di diritti umani e pluralismo continuano ad essere protetti e foraggiati pur che abbiano al governo amici e complici dei potenti del pianeta.
Al punto in cui siamo oggi la gente dei paesi poveri che spera di cambiare la propria condizione di vita, anziché alla lotta politica interna, preferisce orientarsi all’estero: all’emigrazione (vedi, solo a titolo di esempio, questo articolo). Ciò è quantomai conveniente – quasi un paradiso – per i capitalisti e specialmente per le multinazionali: in molti paesi ancora ricchi di materie prime sempre più a popolarli restano una ristretta élite di privilegiati conniventi con gli interessi del capitale ed una massa di disperati – coloro che non avevano le risorse nemmeno per scappar via – disponibili per necessità a qualsiasi condizione di lavoro, con il più basso livello di istruzione e di capacità di organizzarsi politicamente, divisi da conflitti tribali e che in ogni caso, nelle condizioni date, non sarebbero potuti essere trasformati in nuovi consumatori interessanti; e che quindi servono ancora essenzialmente come produttori (quando servono): lì si vive ancora come all’epoca in cui scriveva Marx.
D’altra parte, con l’emigrazione, i potenziali nuovi consumatori reperibili nei paesi di origine dei migranti non vengono persi, anzi, una volta inseriti nei paesi di accoglienza diventano ancor più interessanti e le rimesse che mandano a casa permettono comunque di aumentare il livello di consumi delle loro famiglie e quindi delle popolazioni locali, senza però necessariamente dar origine e struttura ad un’economia autocentrata nei paesi “in via di sviluppo”: rendendo anzi molti lì dei consumatori “puri” il cui denaro viene del tutto o quasi dai parenti emigrati. Inutile dire il grado di dipendenza economica che ne deriva, non solo per le famiglie, ma per le nazioni.
Al contempo i flussi di immigrazione nei paesi ricchi rendono i lavoratori di questi ultimi sempre più ricattabili e disposti ad accettare condizioni di impiego e stipendi più bassi, minori tutele e – grazie anche a crisi economico-finanziarie pilotate ad arte e politiche del lavoro “innovative” – precariato cronico. La destrutturazione del mondo del lavoro e quella del sistema di classi sociali che definiva le nostre società fino a trent’anni fa, insieme alla provenienza multietnica e multiculturale di lavoratori e ceti subalterni in generale, alle politiche sul lavoro, alle normative che complicano e limitano la possibilità di attività produttive autonome su piccola scala, al ricatto di sempre nuovi arrivi di gente che sta peggio (o che già era qui ma vede peggiorare la propria condizione) rendono estremamente improbabile che nei paesi sviluppati si crei nuovamente ciò che aveva caratterizzato alcuni di essi nei primi decenni del dopoguerra, ovvero forti ed agguerriti movimenti politici e sindacali di base (l’Italia stessa è un ottimo esempio) in difesa della povera gente.
Se ribellioni popolari oggi ci possiamo aspettare, queste potrebbero essere più probabilmente di segno populista-fascista e del tutto estemporanee, prive di coscienza e progettualità politica, ovvero facile preda di gente pericolosa e strumentalizabile da chi già ora sfrutta dall’alto l’intero processo e che già oggi ha buon gioco ad usare la minaccia di queste stesse derive pericolose per mantenere lo status quo. Analogamente, nei paesi poveri e soprattutto in quelli già ridotti al caos dai precedenti interventi militari delle grandi potenze (essenzialmente dagli USA ed i loro alleati, ormai) l’unico sbocco di rivalsa che resta alla gente disperata a cui aggrapparsi è la jihad, la guerra di religione, soprattutto l’identità religiosa, per quanto rivisitata, distorta e travisata in chiave decisamente più iper-tradizionalista che tradizionale. Ed anche questo torna utile al capitale globale per convincere tutti che la difesa dei suoi interessi e del suo status quo è comunque la cosa migliore da fare per tutti e che “non ci sono alternative“.
In questa mancanza di alternative, molti dei paesi poveri e di quelli ricchi si avviano ad essere ex-poveri ed ex-ricchi: cominciano a livellare le proprie differenze, sia come mercati del lavoro che come mercati tout court, e così gli investitori hanno sempre più a disposizione un pianeta intero per le loro scorribande finanziare, dove si può indifferentemente agire o dileguarsi spostandosi altrove secondo convenienza.
Questa è la globalizzazione ed è in questo quadro, al quale sono perfettamente funzionali, che gli attuali fenomeni migratori vanno visti: tragedie epocali effetto ed ulteriore causa di sfruttamento ed assoggettamento sia nei paesi di provenienza che in quelli di arrivo; frutto di guerre e processi di colonizzazione politica, economica e militare e disfacimento senza possibilità di ritorno delle multiformi culture millenarie che hanno variamente popolato e colorato il nostro pianeta umano con la loro diversità fino a pochi anni or sono. Tutto ciò per il profitto ed il potere sconfinati di pochi, sempre più pochi e più ricchi e più potenti. Non si tratta in nessun modo di una spinta spontanea della gente a mischiarsi in un entusiasmante melting pot interculturale: questo può valere forse per una piccolissima minoranza che potrebbe facilmente realizzare per sé questa aspirazione attraverso modalità ben diverse da questi fenomeni, ma non sta per nulla nella mente delle persone in generale che li subiscono, da un lato e dall’altro della “barricata”: lo dimostrano i frequenti “scontri di civiltà” a tanti livelli e forme ed il chiudersi in comunità etniche da parte dei migranti all’estero come pure degli autoctoni verso di loro.
Se così stanno le cose, qual’è il ruolo della Sinistra in questo quadro? Se l’intenzione di molti è sinceramente motivata da una solidarietà umana per chi sta male, dal riconoscimento di una propria condizione privilegiata rispetto al migrante, che ci fa capire che sta a noi dargli una mano, da parte di chi rivendica una visione in termini complessivi, cioè politica, non si può non vedere che sono proprio le forze cosiddette “di sinistra” i maggiori fautori dell’apertura all’immigrazione. E non mi riferisco tanto alle politiche di gestione del fenomeno, rispetto alle quali una – maggiore o minore, ma comunque una – apertura sta semplicemente nelle cose, essendo pura propaganda impossibile da praticare – anche volendo – un’ipotesi di blocco totale degli arrivi. Ma l’ambiguità ed il fallimento storico della Sinistra in quanto tale sta proprio nell’aspetto ideal-ideologico del semplicistico buonismo con cui viene affrontata la questione: un atteggiamento che sarebbe stato comprensibile e coerente da parte cattolica, ma non è sufficiente da chi si collega idealmente al marxismo.
Essere disponibili ad accogliere ed aiutare chi è in difficoltà (in qualche misura anche a causa nostra o in seguito a processi ed avvenimenti storici di cui anche noi ci siamo avvantaggiati) è più che giusto ed è senza dubbio ciò che va fatto nell’immediato. Ma come politica complessiva quello migratorio nei termini in cui si presenta oggi è un fenomeno che va contrastato alla radice, perché sta portando e non può che portare, problemi sociali e precarietà sul lavoro qui, mentre non aiuta veramente l’indipendenza economica dei paesi d’origine degli immigrati: rende entrambi più dipendenti, esposti e senza capacità di opporsi agli interessi del capitale globale.
E come si potrebbe contrastare questo alla radice? La Destra dice “aiutarli a casa loro” intendendo in pratica sfruttarli a casa loro come si è fatto finora, lasciandone venire magari quei tanti all’anno che ci servono. Ma la Sinistra non può opporre nient’altro che l’esistente (che è uguale, cioè sfruttarli sia qui, insieme sempre di più anche ai lavoratori locali, che a casa loro) perché ha ormai del tutto assimilato il principio tatcheriano per cui “non ci sono alternative” (che appartiene alla Destra per convinzione ed alla Sinistra inizialmente per rassegnazione, ma una rassegnazione di cui via via son diventati sempre più entusiasticamente convinti, dato che gli ha dato discreti vantaggi rispetto a quando si sentivano rivoluzionari – sebbene l’esito finale sia un suicidio politico).
Contrastare questi fenomeni alla radice implicherebbe infatti smettere di credere che la Crescita economica tendenzialmente infinita sia davvero (semmai fosse effettivamente possibile su questo pianeta limitato, il che non è) la strada maestra (anzi, l’unica) per il benessere di tutti i popoli sulla Terra i quali, per questa via, lo raggiungeranno, chi prima chi dopo. Manifestamente NON è così: lo Sviluppo accentra sempre di più i profitti, esaspera sempre più la competizione, richiede economie di scala sempre più grandi e riduce fino ad annientarla l’autonomia delle comunità locali e degli individui. Il tutto a beneficio di pochissimi ed alla lunga di nessuno, dato che il pianeta non può sopportare questo meccanismo più di tanto. Allora, l’unico modo di permettere agli altri popoli del mondo di avere una vita dignitosamente accettabile (come la avevano prima delle colonizzazioni, secondo i loro standard di allora – ed anche secondo quelli europei di allora, per molti di questi popoli) è quello di accettare noi per primi – che più siamo in condizioni di potercelo permettere – di adottare un modello di economia, di tecnologia, di consumi (non di ulteriore sviluppo!) radicalmente diverso: implementare politiche coerenti in questo senso, incentrate su una autentica sostenibilità per il pianeta, ovvero limitare i nostri livelli di consumo e di sviluppo, lasciando così spazio e modo di sviluppare un tantino le proprie economie anche agli altri. Anche sul piano culturale i paesi ricchi potrebbero così contribuire a diffondere una cultura della sostenibilità a livello mondiale (come hanno già ben saputo fare per quella del consumismo)  e su quello della cooperazione potrebbero sostenere progetti tesi a favorire autonomia e resilienza delle comunità locali anziché il loro coinvolgimento senza ritorno nella “catena del valore”/economia globalizzata. Ne guadagneremmo tutti e ne guadagnerebbe il pianeta e le generazioni future.
Nascondendosi dietro buonismi di superficie, senza portare la critica alla radice delle questioni (come invece a suo tempo e a suo modo aveva saputo fare Karl Marx per ciò che poteva vedere allora), la Sinistra tradisce la sua ragion d’essere storica: si è resa la  principale forza di attuazione delle politiche liberiste globali. Ma soprattutto, col progressismo, sua versione culturale, è oggi il maggior agente di propaganda e consenso alla visione del mondo, altrettanto superficiale, che giustifica l’idea per cui “non ci sono alternative” e quindi fallisce radicalmente nella missione storica che aveva o che in molti abbiamo creduto che avesse.
È tempo di capire che l’alternativa oggi sta solo in un’ottica di Decrescita, autentica, lungimirante.
E che, però, Decrescita significa uscire definitivamente dalla dicotomia Destra-Sinistra che ha caratterizzato tutta la Modernità. Uscire da tale dicotomia – e superare la Modernità (che è per sua natura occidente-centrica) – ci metterebbe, tra l’altro, su un piano di comunicazione più paritaria con i popoli non-occidentali tra i quali, perlopiù, le categorie di Destra e Sinistra non hanno mai avuto grande significato, mentre ce l’hanno molto di più – oltre a quelle di gruppi di interesse diversi variamente definiti, il che vale anche da noi – quelle di tradizione e cambiamento, che però, liberate dalla mitologia hegeliana del Progresso, potrebbero tornare ad essere fatti, possibilità tra loro paritarie tra cui scegliere di volta in volta o trovare mediazioni sulla base di ciò che porta beneficio nel senso più ampio; non bandiere dietro cui schierarsi a priori. Da noi invece la tradizione è stata semplicemente spazzata via ed il cambiamento è talmente continuo (in superficie) che perde del tutto il suo senso: finisce per non essere nemmeno più cambiamento o distrarre dal fatto che i cambiamenti veramente necessari non si affrontano nemmeno, sebbene siano sempre più urgenti.
Questo piano di comunicazione paritario sarebbe probabilmente più adeguato ad un mondo globale in cui tutti dobbiamo coesistere e farci spazio reciprocamente. E più concreto, più utile per affrontare i problemi reali e comprendere punti di vista diversi.

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