Sovranisti di tutto il mondo unitevi. Un manifesto contro la globalizzazione

di Luigi Morrone
Sovranisti di tutto il mondo unitevi. Un manifesto contro la globalizzazione
Fonte: Corriere della Sera
Dagli anni Settanta del secolo scorso, si assiste ad una rinascita d’interesse del dibattito storiografico intorno all’idea di “Nazione”. Il saggio “La Nazione: Storia di un’idea” di Anthony David Stephen Smith, appena pubblicato Rubbettino, con un’intesa introduzione di Alessandro Campi, traccia la situazione attuale del dibattito. Un dibattito comunemente segnato da una impostazione banalmente post-marxista, che tende a confinare nella mitologia la “costruzione” della idea di Nazione, secondo un ritornello ripetuto come formula ossificata: “Non è la Nazione a creare il nazionalismo, ma il contrario”. Secondo tale paradigma:
1. Il concetto di Nazione si afferma nel XIX secolo ed ogni tentativo di retrodatarlo è segnato da evidenti forzature, perché solo in epoca moderna si sono creati i presupposti per la costruzione dei “miti nazionalisti”;
2. Il nazionalismo “inventa” l’idea di Nazione a partire da questi miti cui far risalire una “identità” condivisa, che venne chiamata dai nazionalisti ottocenteschi “Cultura-Nazione” (Kulturnation), e cioè l’appartenenza a una comunità di cultura e di stirpe che precede la sua organizzazione in Stato. Miti che sono completamente inventati (come Ossian) o che riprendono personaggi storici trasfigurandone la realtà. Nasce, così, l’epopea del gallo Vercingetorige, di Arminio, principe dei Germani Cherusci, del capo celtico Ambiorige, eroe nazionale del Belgio, del Cid Campeador, per la Spagna, di Aleksandr Nevskij e Ivan Susanin, per la Russia;
3. L’idea di “Nazione”, in quanto idea “liquida”, non ha più senso nel tempo attale, dove è destinata a lasciare il passo all’idea di una comunità trans-nazionale, figlia della globalizzazione.
In questa prospettiva, additata negli anni ‘40 da Hans Kohn, si muove, innanzitutto, l’antropologo Ernest Gellner, ma le sue teorie furono ulteriormente affinate – tra gli altri – da Eric J. Hobsbawn, da Benedict Anderson, da Ottfried Höffe, da William H. McNeill, da Michel Theretschenko. Tali tesi, oggi prevalenti nella letteratura mainstream, trovano comunque confutazione in studiosi come Adrian Hastings e John Armstrong.
Ed è in quest’ultima direzione che si muove Smith, già allievo di Gellner, poi diventato uno dei suoi più tenaci confutatori, il quale annota: «È difficile capire perché, in base a tale logica, dovremmo ascrivere allo “Stato” maggiore sostanza e realtà rispetto alla “Nazione”. Decostruendo quest’ultima, non si coglie l’essenza delle Nazioni storiche: la loro presenza così potentemente percepita e voluta, il diffuso sentimento di appartenenza a una comunità inter-generazionale legata dalla storia e dal destino. Non arriveremo a reificare la Nazione se ammettiamo la vivida tangibilità e il potere percepito della sua presenza, a prescindere dal modo in cui la Nazione è emersa».
In realtà, sostiene Smith, in ambito politico e accademico, la diffidenza verso il nazionalismo è determinata, soprattutto, dal timore che la costruzione della “Nazione” come “comunità etnica” possa in ultima analisi sfociare nel razzismo (Gellner e Theretschenko ritengono il razzismo inevitabile sbocco del nazionalismo). Così, Michael Ignatieff distingue un nazionalismo “civico”, innocuo, da un nazionalismo “etnico” aggressivo ed esclusivo, come quello che ha preparato il terreno ai conflitti tra Serbi e Croati in Bosnia. Al nazionalismo sciovinista, Ignatieff oppone i “nazionalismi” canadese ed australiano, che hanno da tempo superato la loro caratterizzazione “etnica” (in Canada, un tempo divisa tra gli anglofoni ed i francofoni del Québec), per una accettazione di una “memoria condivisa”, valorizzando l’apporto arrecato alla Nazione dal confluire di culture eterogenee.
La critica all’idea di Nazione come “costruzione” viene mossa da Smith su diversi piani, ma a chi scrive il più rilevante appare la sottovalutazione, da parte dei “costruttivisti”, del coinvolgimento delle masse in questa idea. La tesi “costruttivista” presuppone, infatti, che sia una élite ristretta a “inventare” un mito, ma non spiega come tale mito possa avere tanta attrazione per i popoli. Scrive Smith: «Come dimostra George Mosse analizzando la leva di massa e il concetto di religione civica con la sua specifica liturgia, il nazionalismo era straordinariamente adatto a far leva su necessità imprescindibili. Gli individui ne sono stati prepotentemente attratti perché, oltre ad attingere a simboli del passato, esso rispondeva contemporaneamente ai nuovi bisogni e interessi di un’epoca secolare».
Altrettanto netta la posizione di Smith nella polemica tra “modernisti” (quelli – cioè – che ritengono la “Nazione” una “invenzione moderna”) e “perennisti” (quelli – cioè – che ritengono la Nazione un fenomeno metastorico, ricorrente in periodi e continenti diversi). Smith, infatti, ritiene “fuorviante” considerare la “Nazione” come concetto “moderno”, in quanto: «Il concetto di Nazione rimanda ai numerosi processi storici che nel corso del tempo hanno contribuito, tutti insieme, a formare una comunità culturale distinta più o meno somigliante alla Nazione ideale».
Scendendo al particolare, sul punto specifico della costruzione dello Stato di Israele, Smith si richiama a Adrian Hastings e Steven Grosby, secondo i quali il prototipo di “Stato nazionale” è costituito proprio da Israele nel VII sec. a.C., in quanto già all’epoca si era creata una fede diffusa, quantomeno tra le élite, nella “Grande Israele” che viveva nella propria Terra santa e venerava un solo dio (Jaweh) in un centro ben definito (Gerusalemme). Tuttavia, Smith non affronta la problematica nodale del mito fondante del sionismo: la mancanza di continuità etnica e territoriale tra lo Stato di Israele pre-ellenistico e l’attuale Stato ebraico. Smith rimanda, invece, alle obiezioni di Zeev Sternhell, Eviatar Zerubavel, Eldar Shafir, Uri Ram ma senza confutarle, mentre non affronta quelle, molto più radicali, di Shlomo Sand.
Come di diceva, l’edizione proposta da Rubettino è preceduta da un saggio introduttivo di Alessandro Campi, già autore del volume La Nazione (Il Mulino, 2004). Campi richiama la suddivisione operata da Louis Leo Snyder sulle tre fasi storiche dell’ideologia nazionalista. Il nazionalismo integrativo del periodo 1815-1871, che ha favorito i processi di costruzione degli Stati-Nazione ottocenteschi. Il nazionalismo smembrante della fase 1871-1890, segnato dall’aspirazione all’indipendenza delle nazionalità “minori” e dal quale è scaturito il declino delle strutture imperiali ottomana, austro-ungarica, russa Il nazionalismo aggressivo del periodo che include i due conflitti mondiali (1914-1945). Infine, il nazionalismo post-colonialista degli anni successivi al 1947, caratterizzato dall’affermazione dei movimenti di indipendenza nazionale del Terzo mondo. Per quello che riguarda il dibattito storiografico, Ciampi insiste sulla differenza tra il nazionalismo primitivo, nascente dalla consapevolezza, da parte di una comunità, della propria identità, contrapposta alle altre, e il nazionalismo ideologico, in cui l’idea di Nazione, secondo la tesi di Eugen Lemberg (Der Nationalismus als Integrationsideologie) «assume la forma di concezione del mondo e della società, con un sistema di norme e di valori, ad alto tasso di elaborazione concettuale».
Campi ricorda, inoltre gli ultimi approdi del dibattito culturale su questa materia cui hanno dato apporto decisivo altre scienze umane, come l’antropologia e la sociologia. Allo stato dell’arte, le alternative fondamentali sono quelle tra “primordialisti” e “strumentalisti”, oppure tra “essenzialisti” e “culturalisti”, o ancora tra “perennisti” e “modernisti”, o infine tra fautori dell’approccio “socio-costruttivista” e sostenitori della prospettiva “etno-simbolica”.
Secondo i fautori della tesi “socio-costruttivista”, la “creazione” della Nazione nel corso dell’Ottocento si deve al lavoro condotto essenzialmente da storici e linguisti. I primi, hanno messo a punto i miti d’origine, le genealogie, i simboli identificanti, i riti sociali, intorno ai quali si sono poi cementate le identità politiche di massa all’interno degli Stati europei. I secondi hanno codificato (e, in alcuni casi, inventato di sana pianta) gli idiomi standard che attraverso la stampa, la propaganda politica e l’istruzione di massa hanno consentito al sentimento di appartenenza nazionale di radicarsi nella coscienza popolare dei differenti Paesi.
Campi mette in evidenza il vizio d’origine di tali tesi, che rinviano alla distinzione marxiana tra “strutture” e “sovrastrutture”, onde per pregiudizio “ideologico”, tutto ciò che non attiene all’economia è “artificiale”, costruito dalle “classi dominanti”, e fa proprie le critiche che a tale tesi muove Smith. E anche solo per questo il saggio di Smith, a proposito del quale segnaliamo anche la penetrante analisi di Maurizio Serio apparso nel volume Nazione e Nazionalismi (Historica Edizioni, 2018) non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi è ancora capace d’interrogarsi sul nostro, incerto futuro. Per chi non disperdere l’eredità del passato, la nostra storia, la nostra memoria, la nostra identità. Più semplicemente, il nostro modo di vita, forgiato col sangue nostri padri nei campi di battaglia e nelle trincee del lavoro.

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